Perdersi, Catania

Non conoscere è forse la più grande delle paure. In realtà, ma sempre dal mio modestissimo punto di vista, che è un punto infinitesimale, nullo nel pandemonio dell’Universo, non conoscere conforma tutti i gradi della paura: dalla timidezza che genera la non conoscenza di un sentimento, al più irrazionale terrore del soprannaturale, del buio, degli angoli più reconditi della nostra natura.

L’autobus delle 12 fa il suo percorso solito lungo le strade di Catania. Io mi rendo conto che non so nemmeno dove scendere. Per non sbagliare vado per l’ultima fermata, sperando di non essere tanto lontano dalla meta. La prima cosa che si vede all’imbocco per l’aeroporto di Catania è lo Stadio S.M. Goretti, steso in mezzo ai quartieri dei militari e alle rimesse degli elicotteristi oltre la strada e incastonato tra case tanto vicine che i vicoli sono solo un accidente dall’altro lato. Poi l’aeroporto. Alcuni compagni di questo viaggio silenzioso e solitario, che rimugina tra i fanghi dei ricordi e delle domande, lasciano il bus rosso alla fermata delle partenze. Ripresa la strada, viene fuori una parte del mondo che ruota intorno all’aeroporto. Gli aeroporti sono affascinanti terre di nessuno, colorati appoggi dell’effimero, del consumo, dove la necessità di far fronte alla noia imprevista spinge ad uno shopping compulsivo e sconclusionato. Dietro, ci sono le impronte di vita che l’aeroporto ha segnato. Non sono così tanti i posti dove abitare, ma di più sono le baracche delle attività che cercano di aprirsi agli avventori frastornati dagli atterraggi e dalle attese.

La solitudine degli spazi resi immensi dai buchi di una colonizzazione industriale a macchie si concretizza nel triste torrente dove sguazza un gabbiano in cerca di occasioni in mezzo ai lasciti passivi di una società che si rinnova prima che si accorga di aver accumulato già troppe ceneri. Indovino l’odore metallico e nauseabondo che esala il torrentello, mi ricorda gli avvelenamenti e le malattie, la contaminazione e il disastro. Tutto questo, in germe, scorre sotto di noi, dentro di noi e un giorno chiederà il conto.

Poi la strada si insinua come una lunga freccia fino al porto. A lato, in un labirinto di operosità e immobilità, sta la lunga teoria di containers tutti uguali, fermi da mesi o settimane, alcuni da anni, altri solo di passaggio. È già o ancora Catania, è una città di polvere e ricordi, l’Etna ha forgiato le concrezioni, bianca adesso dei capricci del tempo invernale, immobile, eppure la più dinamica delle città dell’Isola, sembra figlia dell’inizio secolo di ogni secolo passato, quando forse è più presente quella fiducia, tipica dell’umanità, sulle possibilità dei nuovi numeri. Arriviamo ad un piazzale che neanche la lunga tettoia bianca riesce a strappare all’anonimato, giusto vicino alla stazione. Il passaggio è un lungo viale che conduce ai portici, dove si raccoglie una vita tutta intenta a trovare nuove forme di immobilità. Sulla destra riconosco facce smunte e truci di somali e senegalesi, che ti controllano con avidità nel reperire informazioni. I loro occhi indagatori sono il segno della lotta per il possesso di quel lembo di terra, qualunque cosa rappresenti la forma di sostentamento intesa sulla vendita di cianfrusaglie stese su una stuoia bianco sporco, su cui si concretizzano geometrie astratte inizio anni ’90. Il centro è il fast food dell’Indiano, Alì – più tardi scoprirò essere un nome molto comune a questi ristoranti, mai scoprirò il perché – dentro il quale si raccolgono all’ora di pranzo gente di più provenienze, incastrati nel reticolo di conoscenze forzate dall’abitudine.

A meno di 5 metri c’è un bar dal marmo verdognolo, illuminato, com’è tipico per questo tipo di bar, dalla lugubre luce esterna, cui fa eco il cicaleccio stanco della televisione che nessuno segue, tranne il cassiere dai modi affettati. A riprendere l’immagine adesso, dietro il barista vedo i segni delle lunghe giornate dei ricordi, in attesa di un treno o di un autobus che ti porti altrove: quattro file di alcolici guardano fitti e muti gli avventori, chiedendo attenzione. Ci ritrovo perfino due bottiglie di Chartreuse, che mi ha accompagnato in una serata svizzera con la neve sui tetti e il cielo blu e violetto dei tramonti delle montagne, cui regalo un sorriso complice di omaggio. Addio Chartreuse, non sarai mai la stessa cosa, qualunque sia la temperatura stagionale.

Buttati a caso ci sono ancora due o tre bar, cui fanno da contrappunto, quasi inanimati, barboni dormienti al sole freddo e salmastro che si infrange con il vento sulle cose, due Ucraine di mezza età dalla parlantina priva di gesti e qualche lavoratore stanco, che tenta evoluzioni da equilibrista della mente per far fronte a quello stato di noia profonda che fa da compagnia al pendolare. La città sonnecchia a lungo e mi ritrovo a trovare assurdi i gesti conosciuti e spavaldi che altrove non lasciano nemmeno il tempo alla riflessione. Attraversare è uno spauracchio di cui mi accorgo troppo tardi per non lasciar spazio all’esitazione sulle strisce pedonali, quanto è forte il frutto della suggestione.

Mi inoltro nel pomeriggio dentro un caffè a fare discorsi appassionati con gente che ha vissuto sui campi di rugby anche le vite dei compagni e degli allievi e ancora riesce ad amare lo sport che tutto può prenderti con spietatezza, ma senza che tu te ne accorga. Catania resterà ancora imbevuta del fascino dell’esplorazione, nonostante piano ricerchi gli strumenti per impostare una mia geografia del posto.

Dopo la lunga giornata sono al piazzale anonimo con la stessa paura dell’ignoto del mezzogiorno. Ho lasciato ammaliarmi da Alì e dal suo imbonitore vestito di bianco e la lingua schiocca di piccante e fritto. Sto tornando a casa, al riparo, ritirandomi da ogni accenno di ricerca in attesa di questa provvisoria delibera.

Esercizio # 7 – The Terminal

Gli aeroporti sono una metafora della vita. Lunghe attese e strade lunghe per arrivare da un punto all’altro e l’unica cosa che davvero potrebbe contare, il viaggio, relativamente breve. Si, gli aeroporti sono una metafora di molte parti della nostra vita.

Aeroporto di Ginevra, alle 23 di un giorno qualsiasi, se non fosse il giorno dell’Ascensione – scoprendo quanto veramente si possa essere ignoranti in materia religiosa sempre di più; ma del resto è di famiglia, se mio padre era chiamato “il Turco” – e dunque si respiri l’aria di un dismesso, enorme deserto, quando altrove la primavera fa la gente gioiosa, in maniera pacatamente svizzera. Vedere un aeroporto deserto fa rendere conto delle proporzioni mastodontiche delle architetture, dell’insieme standard di banchi, nastri, barriere, scale mobili, carrelli. Perfino le livree delle compagnie coi loro desk colorati fanno parte di una struttura che potrebbe stare in Svizzera come al Cairo o a Singapore, miracoli, se così si può dire, della globalizzazione. Ancora, in un aeroporto deserto c’è il senso vero di tutte queste costruzioni: l’insieme di materiali, dal ferro, al calcestruzzo, alle mattonelle tutte uguali che sembrano posate alla rinfusa, a meglio guardare, con fughe mai uguali l’una all’altra, mai davvero simmetriche, è fatto per colpire l’occhio di un passeggero con i lampi della superficie, i giochi di luce, di insegne luminose, di boutique eleganti nel mezzo di asettiche lamiere bianche anni ’80 e tubi blu a correre tutto attorno come in una fabbrica fordista. Si, ancora più chiaro spunta, quando tutte le luci del capitalismo last-minute si assopiscono sulla notte ginevrina, il lato fordista – o post-fordita o toyotista, insomma, da catena di montaggio – del trasporto per via aerea: numeri, biglietti, carte d’identità e poi tasse, multe, sovraprezzi, a giocare sulla frustrazione dell’ignoranza del passeggero medio. Numeri e codici: le facce sono fugaci istanti di smarrimento al desk d’informazioni.

Nel silenzio surreale della grande struttura aeroportuale, ritrovo ancora altri pezzi del nostro tempo. Quando le luci si spengono e la grande folla è passata altrove, comincia un mondo di diritto sospeso, di assenze, di lunghe attese. I passeggeri ad attendere i voli della mattina dopo non sono molti insieme a me, ma tanto basta per mettere insieme tutte le vite che possono incontrarsi in un aeroporto. Seduti scomodi su sedili fatti per rimanere accettabili ricettacoli per non più di una mezz’ora, c’è tutta un’umanità che prende parte ad un teatro che si snoda uguale da secoli, cambiando l’ordine degli attori, in questo caso. Uno studente cinese dal vestiario occidentale nasconde male l’irrequietezza per una situazione che probabilmente non collima con il suo vissuto. Cosa potrebbe ricordargli? Lontano dal voler trovare veramente una risposta, mi limito ad osservare il suo incessante avanti e indietro, forse intento a tradurre tutti gli avvisi dal francese utilitarista ad una lingua più congeniale (con la stessa aria sperduta e irrequieta lo troverò alle sei del mattino sul mio stesso volo, cercando di persuadersi che sì, al gate B 42 partiva il volo per Londra Gatwick). Di fronte, stanchi ma felici, due coppie di ragazzi giapponesi o coreani cercano di addormentarsi in plastiche e scomode posizioni che li tengano comunque insieme, testa contro spalla, a rendere speciale un istante anonimo, in un angolo anonimo di un aeroporto altrettanto anonimo. Un indiano russa della grossa – mi chiedo se anch’io e il mio naso rotto diamo questi spettacoli anche in queste posizioni – poi, come preso dall’impeto di uno zelo che sa di alienazione – accende il computer e comincia a lavorare per una buona mezz’ora, poi ancora spegne e ricomincia un concerto che risuonerà per tutta la notte. Altri ancora studiano o lavorano, per richiamare un sonno che, a causa dell’inenarrabile dolore di terga, è solo un’impastata sensazione tra un controllo di polizia e un mal di schiena. Mi rendo conto che questi spaccati di vita, che resistono alla noia, prima ancora che al dolore, sono riassunti importanti di esperienze pregresse. Il mio lungo viaggio da Ginevra a Londra quindi a Palermo sarà l’ultima parte di un nuovo inizio, che è ancora la prima parte di una lunga fine che terminerà solo il 22 giugno – ironia della sorte, il mio compleanno – con l’ultimo esame in terra svizzera.

Accanto a questi scarti temporali, vedo o mi sembra di assistere all’esatto contrario: la lunga notte di una coppia che non funziona più. Né litigi, né urla, solo sguardi carichi di vuoto e indifferenza, forse disprezzo, per aver lasciato che tutto andasse così e poi il pianto rotto e lamentoso di lei, seguito da quello del paffuto neonato in preda alle coliche e forse, anche lui, a risentire l’atmosfera di triste resa che circonda i genitori. La vita è un ciclo di amore-odio, forse, come qualche presocratico direbbe.

E così, lentamente, tra i dolori di una schiena storta e di qualche esistenza da riscrivere, si appresta l’alba sulla Ginevra aeroportuale, salutata dai tacchi delle hostess che sbattono duri e di buona lena sul pavimento di irregolare simmetria. Un altro giorno e un altro inganno cominciano.