Esercizio #13 – Partenze

Risveglio impastato senza sveglia, a tappe: 07.17; 09.17; 09:21. Il letto mi ha risputato fuori alla stessa maniera di come mi aveva accolto: stanco, con la schiena rotta. No, non dormo bene. Capita di tanto in tanto e leggo il perché anche nei sogni che faccio.

http://www.youtube.com/watch?v=Z0kGAz6HYM8

Ho raschiato il fondo di alluminio della confezione del caffè. Gli ultimi granelli di macinato finiscono sulla carta da cucina, dimenticati attorno alla forma della caffettiera che, piena, non li ha voluti, il mio ultimo caffè in Svizzera. Adesso che sono alla fine la testa tira strani scherzi: ricordo nitidamente le voci che mi hanno accompagnato in questi mesi, l’accento di r arrotolate come nessun altro fa in tutto l’universo francofono, i posti, i (pochi) odori, qualche esperienza, tutto poi si mischia a creare un enorme melting pot senza capo né coda, dentro il quale si segue una storia senza intreccio, senza inizio o fine. Non mi chiedo più di tirare le somme, so che qualunque metro di giudizio provi ad utilizzare sarà incompleto ed inutile. Ritorno al mio caffè.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Più di tutto mi sono attaccato al caffè per sentire ancora un po’ l’aria di casa, per non dimenticarla, per resistere alla durezza di temperature mai provate, di deserti silenziosi, dove, alle volte, non sono riuscito a carpire la presenza umana. In buona sostanza me ne vado. In buona sostanza posso dire di non aver capito. Nel caffè, allora, rivedo la mia lunga partenza, questi 10 mesi, come un giro lungo per ritornare a casa, a posti che posso adesso riconoscere con più leggerezza. Prendo il primo sorso con movimenti compassati, odoro, ancora prima di portare alle labbra, l’asprezza a tratti tannica, l’ubriacante mielosità dell’arabica. Più di tutto mi è mancato il mare.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

La prima volta che sono tornato, la mia valigia era piccola, modesta: portavo i vestiti per una settimana, ma dentro di me avevo la pesantezza di molte cose da sciacquare via. Andavo via da un mese di nebbia, intrappolato dentro un enorme nulla, nemmeno il lago poteva darmi quel respiro che qui pian piano si faceva sempre più corto e affannoso. Volevo lavare via la stessa durezza melanconica con cui ero partito. Ho cercato l’odore del mare e, sorpreso, non sono riuscito a trovarlo. Era scomparso dalla mia testa. Al secondo sorso di caffè la mia lingua si irrigidisce al contatto acidulo. Lo apprezzo, lo faccio diventare introspezione. Più di tutto mi sono mancati gli amici.

Ho vestito la maglia della mia squadra, la maglia della mia famiglia acquisita per tre volte quest’anno. Ho preso il mio bagaglio di abbracci e sono ripartito, trattenendo le lacrime dolorose di un distacco che io stesso ho cercato. Allora mi sovviene la storia della rana e dello scorpione e mi dico che, forse, è la mia natura. La mia natura: adesso ricordo che ero partito per trovarla. Tuttavia, partire e fuggire, partire ed esiliarsi non sono la stessa cosa. Al terzo sorso, uguale al secondo e uguale forse a tutti i secondi e terzi sorsi che ho preso da ogni tazzina di caffè, vedo appena il fondo. Più di tutto mi è mancata la famiglia.

La prima sera che ho dormito di nuovo nel mio letto ho dormito come mi sembrava di non aver mai dormito in vita mia. Un sonno lungo, pieno di sogni, consolatore. Lì dove ho la mia famiglia so che ho casa mia e ancora, nonostante il tempo mi abbia fatto crescere la barba e mi abbia accompagnato fuori di casa con l’impellenza di decisioni volte al futuro, riesco ad emozionarmi per un bacio di mia madre, a sentirmi protetto, come da bambino, tra le braccia di mio padre. A pensarci, in quella casa in campagna dove torno e che chiamo “casa”, lì si sono condensate migliaia di esperienze, si è consolidato un éthos. A toccare le mura ruvide posso sentire le mani callose di mio padre, così come la sua passione, e ancora sul lungo e liscio tavolo di legno massiccio rivedo la sua pazienza silenziosa. Da piccolo il suo meditare era per me un inesplicabile mistero, adesso so che al di là della sua mutezza ci sono mille progetti con un futuro ed uno scopo. E adesso, che la disillusione ed il cinismo mi hanno fatto addosso una dura scorza di cicatrici, c’è ancora una favola che resiste al tempo: mio padre è il mio unico eroe, l’unico di cui davvero vorrei riuscire a seguire le orme. Al fondo della tazzina resta qualche granello bruciacchiato, imbevuto di un caffè che sa poco di caffè. Più di tutto mi è mancata una vita.

E lì sul fondo, a poche ore ancora dall’andare a riprendere tutto, dipanando meglio i fili di Lachesi, posso risentire quella voce che mi aspetta, caracollando tra l’impazienza e la calma. Il mio prossimo caffè avrà due tazzine.


Esercizio #13 – Gabbie

Il gatto è il vero padrone di questa casa. Dorme, mangia, vive qui ventiquattr’ore su ventiquattro, ogni giorno di ogni mese di ogni anno. Il gatto è il vero padrone della casa.

Contrada Iria, Sant'Agata Militello (ME), Sicilia, Italia

Sonnecchia sui divani, sui letti nelle posizioni più complesse e plastiche come un acrobata della pigrizia, stanco forse di un pensiero di troppo, quel pensiero che lo fa ancora più pigro. I suoi passi, glissati come un piatto jazz, di tanto in tanto si possono sentire rompere l’immane e spaventoso silenzio di una casa svizzera, affogata nella calma piatta ed irreale di Planeyse, il trait d’union tra Colombier e Bôle, dove solo la ferrovia ruggisce di tanto in tanto, come un mostro che ammonisce i villici della sua presenza ad intervalli regolari. Non c’è mai fretta nel suo passo, bonario com’è, non ha mai torto un capello nemmeno ad una mosca. Ha tutto ciò che vuole, non potrebbe essere altrimenti, avendolo, con crudele egoismo, privato perfino della pulsione sessuale. Maschio, ma solo perché non potrebbe essere femmina, il gatto è il re.

Lo osservo mentre guarda fuori dalla finestra, conserte e immobile per ore, mentre fissa il giardino dove altri gatti – alcuni obesi e grevi, altri snelli e furtivi – lasciano che il sole li riscaldi, chiudendo gli occhi su un sonno annoiato, ma che sembra essere benedetto da chissà quale divinità. Guarda fuori, e sento le sue paure e i suoi desideri uscire forti dalla sua testa nera ad ogni movimento di orecchie. Là, nel giardino, tra le siepi, sotto il fresco di un albero lui vede la sua vita, quella che non potrà mai avere, quella che la sua codardia e la sua pigrizia hanno scelto di non dargli.

Proiettato adesso su di lui, poi curvo sul mio computer a scrivere, mi rivedo come il gatto in quest’istante: nell’aria di dismissione lungo cui sto lasciando scorrere il conto alla rovescia di queste ultime giornate svizzere, costretto in casa dagli ultimi esami, costretto dalla mia pigrizia, dalla nervosa indolenza del dovere, non sono poi così diverso dal gatto. Le mie paure e i miei desideri sono più grandi, ma le nostre condizioni ci accomunano e per questo ci evitiamo con distratta attenzione, per non rivederci così stretti l’uno negli occhi dell’altro. Il gatto è il re della casa, ma è lo schiavo di se stesso. Il gatto, in fin dei conti, ha paura di rompere la sua dorata maledizione.

Così alla finestra, mentre vedo il verde splendente di una domenica mattina che annuncia estate, vedo anche il mio riflesso. Guardandomi sto guardando la mia prigione.

Planeyse, Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Il Drago è solo, gli uomini ne fanno un dio

Scavo più in profondità dietro gli occhi sdoppiati dal vetro. Una voce rassicurante, mia come può essere qualcosa di voluto con ogni fibra del corpo, mi dice:

– “Svegliati, stai tornando” –

– “A casa” –

Esercizio #12 – Casa e case

La mia camera è in perenne stato di emergenza. Il disordine e la polvere, come in ogni camera di uno studente uomo di venticinque anni celibe, regnano sovrani incontrastati. La mia camera mi rappresenta. Le case delle nostre vite ci rappresentano e sono il nostro specchio.

Mi sembra di essere in Svizzera da una vita o mi sembra che la mia vita non sia mai stata davvero da un’altra parte. Mi sveglio la mattina e ho la labirintica sensazione di una Sindrome di Stoccolma continua. Sono a casa? No, non sono a casa. Dove sono? Sicilia o Svizzera? Poi la riaffermazione della verità. Andrò fuori dalla mia camera e sarò in un Paese straniero. Entro le mie 4 mura, forse, sono un po’ più a casa mia.

Tuttavia hanno sempre avuto l’aspetto della provvisorietà intriso fin dentro le pareti. Da questo punto di vista le mie camere hanno la stessa conformazione di quelle d’albergo: mobilia kitsch e standard, nessun quadro, poster o fotografia, lo stretto indispensabile, montagne di disordine e la valigia sempre aperta, anche quando sono passati 4 mesi dall’ultima partenza. Questo stato mi ricorda come vivo: continuo dubbio e attesa dello stadio successivo, sapendo già che un giorno chiuderò per l’ultima volta la porta di quella stanza dietro di me, avendo ripreso le mie cose per metterle di nuovo nel mio guscio di lumaca, con la mia casa sulle spalle o richiusa dentro un trolley. In questo stato di caos, di continuo passaggio tra una crisi e l’altra, nel senso più turneriano del termine, c’è sempre spazio per i libri e per gli scontrini. I primi si nascondono talvolta bene, ma dentro hanno interi pezzi di vita. Ricordano momenti o interi periodi. Ci sono le Cosmicomiche di Calvino, lette per la prima volta in un agosto di novità e poi rilette ad una voce desiderata come favole per inguaribili adulti visionari; c’è stato e adesso riposa tranquillo – a stagionare prima della prossima apertura – Saggio sulla lucidità di Saramago, letto nel giro di una notte, fino all’alba soffiata di un inizio giugno. Come le stagioni, riposano per essere in seguito ripresi, i libri.

Gli scontrini, invece, invadono indiscriminatamente ogni anfratto: scontrini di supermercati, bar, pub, ristoranti, bancomat, biglietti di treno e di aereo, brochure mai lette di iniziative sconosciute in posti in cui non vorrei mai avere accesso, linguacce di trasfigurate gothic girls che mi ricordano che i rave e i goa in Svizzera vanno forte. Ci sono appunti mai riletti con penne che adesso si perdono nei tascapane o nelle borse di qualcun altro, mappe, pezzi di carta, promemoria riletti con tre mesi di ritardo. Gli scontrini dicono anche loro della mia vita: mi ricordano la spietatezza del consumo, una parola che in Svizzera ha un senso orribilmente importante, mi rimettono frammenti di vita, che si aprono con un nome accattivante e si chiudono con un “Merci de votre achat” o “Grazie e arrivederci” o “Thanks and goodbye”. Frammenti, appunto, lunghi come una serata o di svogliata necessità come latte, pane e carne scritti e riscritti sopra esose quittances di coloratissimi, illuminatissimi e asettici supermercati. Siamo ciò che mangiamo, senza remissione di peccato.

Ora che ho finito le mie spicciole pulizie, rivedo questa casa nel suo insieme. No, non c’è la mia mano qui, se non oltre la mia porta, ma fuori leggo i percorsi di un’altra persona e ogni volta resto stupito ad osservare. C’è l’irrequietezza di questa società, che si trova sospesa ancora tra un coro alpino e una massima del feng-shui. Così, accanto a fiori di campo e piccole mucche con la croce bianca sul fianco ci sono elefanti indiani in piedi grazie all’intreccio di fibre scure che non odorano più del posto da cui vengono, tutti questi oggetti disposti secondo l’arte zen dell’arredamento, bilanciando le energie, per un ambiente friendly and comfortable. In 9 mesi, durante ogni settimana, almeno una volta a settimana, ho assistito al balletto degli stessi mobili e delle stesse tende spostate di stanza in stanza, poste in verticale o in orizzontale, appoggiate ad un muro o ad un altro. Qui comincia il mio campo minato, nel cercare ogni volta di comprendere le nuove geometrie, mentre, come armata di sua propria volontà questa casa cambia, si muove, progredisce. La mia giungla di traduzioni mancate comincia al di fuori della mia porta.

http://www.youtube.com/watch?v=Uf7tPf7z1Hk

Piano piano, ogni giorno sempre di più, mi riappacifico con quell’altro me lasciato in un’altra stanza che chiamo ancora casa a 2000 km di distanza e ne aspetto un’altra – di casa – tutta da costruire con le idee, con un cammino che si accresce. Dentro queste camere posso sentire le mie mani poggiare cose nuove, desiderare contatti con oggetti conosciuti, respirare gli odori di una routine imparata con anni di esperienza. Casa mia è dove poso il mio zaino, dove ho lasciato le mie magliette in attesa.

http://www.youtube.com/watch?v=kr2gRni7bio

Esercizio # 11 – Bollicine

La socialità è un bicchiere pieno.

Bere, l’atto di bere, ha – forse a tutte le latitudini – una “sacralità” particolare, è investito di compiti e di interdetti che rendono l’atto del bere dell’alcol, del caffè o qualunque cosa che non sia della semplice acqua – anche l’acqua stessa può essere, in ogni caso, non interamente acqua, se viene caricata di particolari connotazioni – un atto delicato, di alleanza, sfida o gioco. Tondo è il bicchiere, tondo è il mondo, circolare dev’essere la nostra amicizia.

Bere insieme racconta cose, immerge pensieri nel fondo di vetro, poi li affoga di materia che, come tutti i “phàrmaka” – medicine, rimedi – è anche veleno. Avvelenarsi, andare a fondo. E che un bicchiere scacci l’altro, che un bicchiere scacci la paura, le domande, le incomprensioni. Beviamo perché il mondo comprenda noi incompresi. Beviamo perché l’eco dei bicchieri sbattuti vuoti sul tavolo sia l’eco delle nostre risa, la spigliata noncuranza delle nostre parole, la rabbiosa riserva del fumo alcolico che esce ruggente dalla bocca. “A secco!”. Ordine perentorio, sfida di resistenza, gioco dei limiti. E nei bicchieri si riprendono miscele strane, mai uguali nelle proporzioni, ma sempre identificati con nomi terrificanti o rassicuranti, sensuali o apocalittici. Black Napalm, Cuba Libre, French Kiss. Il fuoco invisibile ti brucia la gola, ti fa ridere l’anima, ti fa perdere gli occhi. Chi sei tu?

Nel parlare infine biascicato ci sono brandelli di verità. Chi parla dal profondo gonfio d’alcol? Chi rimette se stesso dal labirinto del Minotauro? Come sciamani caduti in disgrazia, tutti hanno un modo di divinare il proprio fondo oscuro. Lì dove si annidano tutte le nostre animalità, come un buco nero, guardi il tuo buio. E lui guarda te, finché finalmente né l’uno né l’altro hanno più i limiti imposti dal controllo dei tuoi occhi e degli occhi degli altri. Le porte del Tartaro spalancate a fare uscire demoni gioiosi o terribili satiri, centauri iracondi. È una libertà caotica, uno charivari che implode, gorgoglia, si soffoca solo, poi monta ancora ed infine si assopisce sfatto.

Siamo poveri diavoli, in preda alle nostre possessioni.

Esercizio # 10 – Fino al sole

Oltre un oggetto c’è un segno. Oltre un segno potrebbe esserci un simbolo. Quello che ogni simbolo racconta è una storia.

Come ogni venerdì – in Svizzera, in Italia si tratta del sabato – ho tenuto i miei scarpini in mano per pulirli, per rimetterli a nuovo. In realtà non si tratta solo di questo. Lasciati al loro destino per tutto il resto della settimana, quando si accumulano il fango e la polvere degli allenamenti, che scandiscono il tempo di un rugbista meglio ancora di quanto non faccia una settimana, vengono riesumati da qualche borsone putrido dalla scorza ruvida della fibra sintetica, che sotto le dita ha un rumore e una sensazione particolare, come se l’ordito fosse tanto tangibile da azzeccare ogni punto. L’odore è forte: sudore, erba, terra, acqua accumulati e lasciati seccare e decantare come se fossero trofei, a creare quella sensazione pungente che chi è entrato in uno spogliatoio conosce bene. Quell’odore ti guida ogni giorno di allenamento e di partita, è come l’odore di casa, appena lo senti, sai che va tutto bene.

Prima di cominciare a pulire, mi perdo a guardarle nei dettagli. No, non sono perfette. I lacci cominciano a mostrare i primi sfilacciamenti, i tacchetti sono usurati dal continuo sfregamento su qualsiasi tipo di superficie e sembrano quasi dei canini spuntati, la pelle laccata comincia a mostrare, vicino alla suola, qualche segno di cedimento, dovuto all’assestamento sul mio piede, ai continui shock, infine all’incessante ingiuria degli agenti atmosferici. Qua e là mostrano qualche piccola scalfitura: tacchetti altrui, se ne vedono bene i profili, come di graffi di animali feroci. I miei scarpini sono come me. Sono storto di mille dolori, le mie dita ogni mese che passa segnano nuove storture e braccia e gambe in particolar modo mostrano i segni della tenzone. Eppure io e le mie scarpe siamo là. Abbiamo superato, indenni o meno, un numero che non ho mai contato di durezze e di asperità, mi hanno visto correre e camminare e mi hanno visto bloccato, placcato, calpestato. Su di loro, però, mi sono rialzato.

Comincio a togliere via il grosso con una pezza umida, con movimenti energici a seguire le cuciture, vicoli sotto le mie dita, che indicano la forza che tiene insieme la leggerezza della tomaia, i tacchetti, sei da trequarti, in alluminio, la gomma flessibile della suola. Tolgo le incrostature della settimana e con esse le preoccupazioni, mentre ripasso mentalmente il lavoro fatto, ripasso come sono arrivato a quel momento, tento di eliminare quella sensazione di teso vuoto che si annida allo stomaco e sotto il cuore a toglierti il respiro e che l’indomani sarà il ticchettare nervoso dei tacchetti vestiti sul cemento anonimo di uno spogliatoio, umido come una tana, imbevuto di umanità sudata e nervosa di testosterone, calda di canfora. Visualizzare, chiudere gli occhi, visualizzare gli obiettivi. Come un aruspice, dietro ogni pensiero interpreto come andrà domani, cercando sempre di scacciare gli influssi negativi, mentre continua, lento e deciso, il lavoro di pulitura.

Adesso il grosso è tolto, il colore non si nasconde più dietro la patina d’erba martoriata dallo schiacciamento, né dal fango schizzato violento ad ogni calpestamento. Adesso ritorna alla luce un blu forse un po’ opaco, ma ancora abbastanza brillante, e allora penso che io e i miei scarpini condividiamo molto più di uno sport, ma la vita. Sappiamo, io e le mie scarpe, che dalle ferite non si può tornare indietro. Ogni taglio, graffio, distaccamento ci ha cambiato irreversibilmente. Il mio naso rotto come la pelle mezza scollata, le mie giunture doloranti come i tacchetti smussati. Eppure anche questo è crescere. Anche questo ci rende umani. Ogni passaggio verso un uomo nuovo è segnato da una cicatrice e ogni cicatrice è un monito, una prova.

Dentro la luce artificiale della caverna-spogliatoio, adesso, in mezzo ad altri respiri forti, comprendo perché la haka dei guerrieri Maori è stata presa dagli All Blacks e non si tratta solo di puro folklore. Lo spogliatoio è l’ultimo passo, l’ultimo passaggio. Solo passo dopo passo – A Upane Ka Upane – in bilico tra la vita e la morte, tra il coraggio e la paura – Ka Mate Ka Ora – si può guadagnare la luce, il Sole, la vittoria – Whiti te Ra -. Il terreno scricchiola dei passi tacchettati. Sono al mio posto.

Speculum #2 – Lettura

Ascolto. Sulle parole pronunciate ci sono forme e colori, doppi, di Marquez e di te, lettrice. Dove finisce l’acqua delle tue parole che scorre?

John Everett Millais – Ophelia (1851-1852)

Il punto non è la perfezione, no, non la perfezione della pronuncia, né l’intonazione. Ogni intonazione è, in effetti, la configurazione musicale-immaginifica-frattalica di tutti quei livelli che posso vedere nel tuo oscillare sul libro, nel continuo vortice a due sensi che rivedo, immergendomi nell’ascolto. Così, ipnotizzato come il cobra, ricostruisco parole e sensazioni, immagini, ritratti, versi. Da cosa è ipnotizzato in realtà il cobra dell’incantatore?

Il cobra è incantato dal movimento del flauto. Il centro dell’universo è il movimento. Come può un centro continuare a muoversi? Eppure la testa del serpente continua ad osservare la bocca del flauto, il fuoco di tutti i desideri, il tremolio scintillante e nero del flauto che si muove, si ferma, si muove ancora. Il cobra segue quel centro che pare incerto, ma che continua quell’oscillare sapiente. Forse è perfetto questo? Le incertezze dell’incantatore sono perfette. Il centro è il libro che oscilla al tempo delle tue parole. C’è un pianeta che ruota, è ruotato, rotola, è fermo.

Il cobra è incantato dalla melodia. Il cobra assaggia la musica con la lingua, la respira con il naso, se la ritrova ubriacante nelle orecchie. La melodia cosa dice al cobra? Il centro dell’universo è la melodia che si spande da un centro. La forma delle tue guance è uno spartito che poi esita sulle tue labbra. Le pause sono forme, le pause prendono forma, e la tua voce è anche il silenzio della voce che imbastisce mondi e galassie parallele. Anche negli errori, nella fretta c’è perfezione? L’incantatore sbaglia una nota, il cobra continua ad essere attratto, la sua lingua odora l’aria, la sua lingua odora il fiato musicale dell’incantatore.

Il cobra è incantato dall’incantatore. Sulle linee del sopracciglio, del naso dell’orecchio, l’occhio immerso nella melodia letta e ogni volta imparata, di cui l’incantatore stesso si sorprende, il cobra si perde: la sua lingua, i suoi occhi guardano e azzeccano le asperità minuscole della pelle, si perdono tra le sfumature dell’incarnato assorto nella lettura, nella lettura del cobra. Gli occhi dell’incantatore e del serpente si incontrano come non si sono mai incontrati, come si incontrano ogni volta come fosse la prima volta. Le labbra dell’incantatore vogliono il serpente che è la morte, il cobra stesso vuole la morte su quelle labbra.

Il cobra danza e il mondo scorre come l’acqua, scorre come l’incantatore. L’incantatore scivola le sue parole come l’acqua sulle pietre erose dalla pazienza di acqua sempre nuova, sempre uguale, quante gocce d’acqua sono tra esse uguali? Eppure nessun segno, per quanto formalmente uguale, è contestualmente lo stesso. Per questo il cobra beve del fiato assorto dell’incantatore e danza, perché è il centro di un universo che non ha centri, ma solo oscillazioni. Il cobra è innamorato di mille proiezioni, dei mille livelli, delle miriadi di oscillazioni che l’immaginazione di un serpente crea mettendo insieme i segni della Qabalah. I mondi così crescono tra le parole e tutte le non-parole, i non-segni, le non-sensazioni e tutte quelle che sono proiezioni che vengono dallo stomaco, tremano sulla lingua, digrignano i denti e diventano solo silenzio.

L’acqua delle tue parole che scorre leviga le pietre.

Esercizio # 9 – Ritorno a casa

Il cielo di Palermo all’imbrunire si apre verso l’infinito. È come un’immensa tavolozza di gradienti che va dall’arancione incandescente e in 180° tocca ogni sfumatura fino a che le mani affusolate della notte, là verso Bagheria, non comincino piano ad accarezzare l’aria. Palermo è intrisa di ricordi.

Mi sono ritrovato imbevuto di quest’aria familiare, per quanto il primo impatto sia stato di incomprensibile caos – sono già così aduso alla pacata vita svizzera? – e dentro di essa, respirando a pieni polmoni, ho trovato una dimensione di casa. Ho atteso per potermi immergere nella notte dai profumi desiderati e fondermi per trovare il mio posto dentro l’anello di Moebius, così adesso ho l’opportunità di trovare pace, nel posto da cui tutto era partito. Ho atteso la fluttuante calma del mare e il suo odore denso per potermi sentire finalmente libero. A Palermo, mentre guardo aprirsi il golfo e una nave si allontana maestosa con le sue luci di piccola città galleggiante, comprendo la natura stessa dei mari e degli oceani: per quanto lontano si possa andare, girandosi attorno ci sarà sempre abbastanza acqua per non porsi confini. Solo dal mare, quindi, poteva nascere tutta la vita e tutte le vite possibili. Così Palermo riflette il mare e lo condensa in strutture architettoniche, in strategie urbanistiche, in rumori, essenze, suoni, colori, storie, ancora una volta vite.

Palermo ha i suoi strati che si confondono, in cui trovare confini è un’impresa per turisti e guide, mentre invece la città si lascia scorrere su un canovaccio dalle interpretazioni e sfumature infinite e ancora più raffinate. Palermo è una città dalla ricerca continua, immersa nella sua trasandatezza e da essa allo stesso tempo impreziosita, e per questo va piano scoperta e riscoperta, su tragitti che, per quanto banali, anche dopo anni possono nascondere sorprese. Qui l’umanità è immanente e odora di polveroso, putrido, dismesso, abbandonato, distrutto o si glorifica di bellezze rare, di fragranze inattese, mischiate nella discordanza cui solo i sensi esperti possono trovare un verso, là dove “verso” indica la condizione dinamica del continuo divenire, in un ciclo che va dal traffico, alle urla dei bambini, dagli strepiti, alla neomelodica che si spande come un mal di pancia dalle finestre aperte, dal jazz dello Spasimo, al martellare incessante di Y10 svuotate di tutto tranne che del motore per fare largo ad impianti stereo da concerto a San Siro. Adesso mi ritrovo compreso tra standard comprensibili: l’uomo, il palermitano, si riappropria di tutta la città, di tutti i suoi tempi e spazi, mettendo in scena spettacoli unici in luoghi fatti arene e teatri per l’occasione. Tutto è teatro a Palermo: è fatto per fotografare momenti in pose di folklore o di squallore, così come di indicibile e peculiare kitsch e ancora di inenarrabile bellezza, dove il tufo, il marmo, le maioliche, i gruppi statuari contorti svettano al di sopra di vite diroccate dentro case diroccate e mai si sa dove il prossimo spettacolo dipanerà i suoi fili o dove tornerà ad intrecciarli. Perfino la bruttezza sa essere bella a Palermo, là dove si fa faccia, e la faccia vissuto, e il vissuto storia, e la storia tutte le storie. Allora non tocca mai chiederti, in quest’enorme caos continuo e figlio di numerosi ordini, dove sono i Palermitani, ma dov’è Palermo. La risposta è: quale Palermo?

Proiezioni #1 – Ephraim

Piove che quasi sembra mi piova dentro la testa. Il vento alle persiane sbatte, cercando di raggiungere ogni angolo, frustrato nel tentativo.

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Apro gli occhi. Nel mio letto io esco da una casa di pietra a strapiombo sul mare. Tutto attorno ulivi con le chiome scarmigliate in una posa supplichevole dal vento di anni – quante epoche può raccontare un ulivo? – adesso placido e assopito da un sole estivo, che fa chiazze luminose sulla terra altrimenti nascosta dagli alberi. Germoglia l’erba, sono a piedi scalzi e posso sentire il mondo scorrere insieme a me, umido e rigoglioso, l’acetosella mi accompagna come te in mezzo a questa pace. E’ un’estate di ogni anno della mia infanzia, così come di altri periodi della mia vita e posso sentire l’odore adesso inconfondobile della carne sulla brace. Mio nonno, poi anche l’altro, il secondo come se fosse una presenza immanente, dentro e fuori di me.

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Lipari si appoggia su un mare adesso quasi piatto, che si può vedere, scuro e profondo di blu, dalla scogliera erosa dai marosi. Non so se questa Lipari sia mai esistita, ma lì dove niente è davvero impossibile, questa è Lipari. Al di là di ogni ragionevole dubbio, posso guardarti attraverso il filtro della luce solare. Il tuo sorriso mi racconta ogni parola. Posso ascoltare la tensione della tua pelle, catturata dalla spensieratezza, infine illuminare il verde intenso dei tuoi occhi e dirmi quanto sia bella tu e quest’isola che ci accomuna. Il vulcano scorre tra i tuoi capelli, ti posso sentire tutt’una con le cose della natura, indivisibile, intensa, come se tutto appartenesse e cospirasse della stessa essenza. Un respiro intenso mi cattura e mi porta il mare e ogni desiderio si condensa in una sensazione. So che ci sei e io sono Ephraim, doppiamente fecondo, finalmente lontano dall’Egitto.

Ephraim. Questo nome vedo scritto. Io sono Ephraim. Sono a casa e niente può spostarmi da qui. Mi risveglio con un trillo. Sono ancora lontano, ma ogni giorno è un passo verso il ritorno.

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Esercizio # 8 – Twickenham: rugby, birra e… tabacco da naso

Londra è abbastanza grande perché anche un evento come la Heineken Cup possa restare solo una partita di rugby. Nell’immenso insieme di blocks identici a gruppi che squadrano le strade della capitale dell’Impero, le storie di Twickenham nell’anno dell’Olimpiade sono come le rane nello stagno. Però, che stagno.

Il Twickenham Stadium è fatto per stupire e per far riflettere. Rispetto anche al più grande dei giocatori, la grandissima struttura in metallo e cemento armato (di per sé non il massimo dell’eleganza) è imponente, preponderante e annulla – o vorrebbe farlo – ogni velleità umana di grandezza. Anche questo è il rugby e questo ricordano anche le statue di bronzo che immortalano pose plastiche attorno al grande protagonista, l’ovale, l’unica forma che conta. In ogni caso, rispetto al leggendario e fantomatico William Webb Ellis, il divino Brian O’Driscoll è solo un altro giocatore, un accolito – magari tra i più zelanti – di un culto che va al di là della consacrazione del singolo. Twickenham è oltre le storie dei singoli giocatori, è semmai il loro grande orecchio di risonanza. È quell’atmosfera surreale e frizzante che si respira tutto intorno e dentro esso. Se ami il rugby, quello è il tuo posto e poco importa che tu sia probabilmente lo spettatore che venga da più lontano, con inglesi ed irlandesi che chiedono curiosi se in Sicilia si giochi a rugby – “Iron Team RFC? Do you mean Aironi?” – in quel momento sei parte di un rito, di un “atto di amore” verso una disciplina, di una comunità che si federa intorno alla condivisione di una passione.

Si entra finalmente a Twickenham dopo una lunga salita, ascoltando idiomi diversi, con sfumature di accento ancora più diverse, ed è come affacciarsi su un grande balcone che dà sull’infinito. Il campo verde come poche volte è capitato di vedere (per quanto il Millennium Stadium sia ancora meglio da questo punto di vista), i pali bianchi imponenti, l’odore del rugby che conta, come se avesse un odore riconoscibile, che forse è quello dell’erba fresca che tra poco sarà calpestata dai protagonisti di questa giornata e un po’ è l’odore di tutta quest’umanità varia, che respira di birra, traspira del sintetico delle magliette, si accompagna con gli effluvi della carne arrosto o con quello più dolciastro degli hot dog con le loro salse. Fare amicizia tra gli spalti, allora, è normale, anche perché è facile riconoscere quattro italiani in mezzo a tanti inglesi, dato che sono gli unici che si muovono, urlano, cantano e ridono come gli altri fanno solo quando sono già molto ubriachi e ben presto si diventa il centro delle attenzioni. Tra tre ordini di gradinate è tutto uno scambio di doni che farebbe diventare matto il miglior Malinowsky, tra bicchieri di birre alla spina e passaggi di tabacco da naso che a noi, neofiti dell’arte, fa restare con facce sempre più strane. Per certi versi, la vera partita è tra gli spalti, tra tutte queste esperienze diverse che si incontrano, ridono e si confrontano insieme. Poi finalmente è il campo a parlare. Davide contro Golia? Forse, anzi sì, e lo si vede già dagli spalti, dove il blu è presenza preponderante e prepotente e il bianco si lascia relegare in un benché ampio lato. Per un tempo Davide sembrava potercela davvero fare, esprimendo un gioco che, al di là dei molti errori e forse di un’organizzazione generale meno oliata, era sicuramente più gradevole, ma i Dublinesi hanno fatto vedere cosa significa essere i campioni in carica e favoriti. Sornioni, senza mai davvero rischiare, hanno lasciato sfogare l’avversario, per poi colpirlo una prima volta, cosa che attenua il caloroso pubblico nordirlandese, e poi cerca di affondare il colpo della tranquillità, trovandolo senza troppe difficoltà prima della fine del primo tempo. Con undici punti di vantaggio, sebbene Ulster sembri di poter tenere botta, è facile immaginare che il Leinster amministrerà il secondo tempo. Senza mai davvero spingere troppo, così, la squadra campione difende, ruba, fa cambi di fronte, gioca con tranquillità e permette anche ai bianchi di infiammarsi nuovamente, per spegnere poi definitivamente ogni ardore con la quarta e la quinta meta. Recriminazioni? Delusione? Nessuna. Le parole che più frequentemente si sentono dal lato di Belfast sono – “they deserved it” – l’hanno meritata. Alla fine, come sempre, è il rugby che ha vinto ed è ancora più curioso come tra gli spalti ci si complimenti a vicenda, quasi che siano stati i tifosi stessi a giocare la partita, cosa che in un certo senso è vera. È una performance collettiva, che investe ogni singolo presente e lo trasforma in attore.

All’uscita c’è ancora il tempo per fare nuove e brevi conoscenze attorno ad un pallone che, lanciato in aria a mo’ di up & under, condensa un numero sempre maggiore di persone, fino a quando, come ai tempi dei calzoni corti, il proprietario della palla non deve andare. Lasciamo Twickenham esausti, felici, con gli occhi brillanti della nostra prima volta in uno dei grandi templi del rugby. La festa impazza e risuona anche da lontano e per molto tempo ancora. Per strada, riconoscendosi per i colori sulla faccia, ci si saluta come partigiani e fratelli, avendo fatto parte di un altro piccolo grande miracolo nell’immensa Londra.

Esercizio # 7 – The Terminal

Gli aeroporti sono una metafora della vita. Lunghe attese e strade lunghe per arrivare da un punto all’altro e l’unica cosa che davvero potrebbe contare, il viaggio, relativamente breve. Si, gli aeroporti sono una metafora di molte parti della nostra vita.

Aeroporto di Ginevra, alle 23 di un giorno qualsiasi, se non fosse il giorno dell’Ascensione – scoprendo quanto veramente si possa essere ignoranti in materia religiosa sempre di più; ma del resto è di famiglia, se mio padre era chiamato “il Turco” – e dunque si respiri l’aria di un dismesso, enorme deserto, quando altrove la primavera fa la gente gioiosa, in maniera pacatamente svizzera. Vedere un aeroporto deserto fa rendere conto delle proporzioni mastodontiche delle architetture, dell’insieme standard di banchi, nastri, barriere, scale mobili, carrelli. Perfino le livree delle compagnie coi loro desk colorati fanno parte di una struttura che potrebbe stare in Svizzera come al Cairo o a Singapore, miracoli, se così si può dire, della globalizzazione. Ancora, in un aeroporto deserto c’è il senso vero di tutte queste costruzioni: l’insieme di materiali, dal ferro, al calcestruzzo, alle mattonelle tutte uguali che sembrano posate alla rinfusa, a meglio guardare, con fughe mai uguali l’una all’altra, mai davvero simmetriche, è fatto per colpire l’occhio di un passeggero con i lampi della superficie, i giochi di luce, di insegne luminose, di boutique eleganti nel mezzo di asettiche lamiere bianche anni ’80 e tubi blu a correre tutto attorno come in una fabbrica fordista. Si, ancora più chiaro spunta, quando tutte le luci del capitalismo last-minute si assopiscono sulla notte ginevrina, il lato fordista – o post-fordita o toyotista, insomma, da catena di montaggio – del trasporto per via aerea: numeri, biglietti, carte d’identità e poi tasse, multe, sovraprezzi, a giocare sulla frustrazione dell’ignoranza del passeggero medio. Numeri e codici: le facce sono fugaci istanti di smarrimento al desk d’informazioni.

Nel silenzio surreale della grande struttura aeroportuale, ritrovo ancora altri pezzi del nostro tempo. Quando le luci si spengono e la grande folla è passata altrove, comincia un mondo di diritto sospeso, di assenze, di lunghe attese. I passeggeri ad attendere i voli della mattina dopo non sono molti insieme a me, ma tanto basta per mettere insieme tutte le vite che possono incontrarsi in un aeroporto. Seduti scomodi su sedili fatti per rimanere accettabili ricettacoli per non più di una mezz’ora, c’è tutta un’umanità che prende parte ad un teatro che si snoda uguale da secoli, cambiando l’ordine degli attori, in questo caso. Uno studente cinese dal vestiario occidentale nasconde male l’irrequietezza per una situazione che probabilmente non collima con il suo vissuto. Cosa potrebbe ricordargli? Lontano dal voler trovare veramente una risposta, mi limito ad osservare il suo incessante avanti e indietro, forse intento a tradurre tutti gli avvisi dal francese utilitarista ad una lingua più congeniale (con la stessa aria sperduta e irrequieta lo troverò alle sei del mattino sul mio stesso volo, cercando di persuadersi che sì, al gate B 42 partiva il volo per Londra Gatwick). Di fronte, stanchi ma felici, due coppie di ragazzi giapponesi o coreani cercano di addormentarsi in plastiche e scomode posizioni che li tengano comunque insieme, testa contro spalla, a rendere speciale un istante anonimo, in un angolo anonimo di un aeroporto altrettanto anonimo. Un indiano russa della grossa – mi chiedo se anch’io e il mio naso rotto diamo questi spettacoli anche in queste posizioni – poi, come preso dall’impeto di uno zelo che sa di alienazione – accende il computer e comincia a lavorare per una buona mezz’ora, poi ancora spegne e ricomincia un concerto che risuonerà per tutta la notte. Altri ancora studiano o lavorano, per richiamare un sonno che, a causa dell’inenarrabile dolore di terga, è solo un’impastata sensazione tra un controllo di polizia e un mal di schiena. Mi rendo conto che questi spaccati di vita, che resistono alla noia, prima ancora che al dolore, sono riassunti importanti di esperienze pregresse. Il mio lungo viaggio da Ginevra a Londra quindi a Palermo sarà l’ultima parte di un nuovo inizio, che è ancora la prima parte di una lunga fine che terminerà solo il 22 giugno – ironia della sorte, il mio compleanno – con l’ultimo esame in terra svizzera.

Accanto a questi scarti temporali, vedo o mi sembra di assistere all’esatto contrario: la lunga notte di una coppia che non funziona più. Né litigi, né urla, solo sguardi carichi di vuoto e indifferenza, forse disprezzo, per aver lasciato che tutto andasse così e poi il pianto rotto e lamentoso di lei, seguito da quello del paffuto neonato in preda alle coliche e forse, anche lui, a risentire l’atmosfera di triste resa che circonda i genitori. La vita è un ciclo di amore-odio, forse, come qualche presocratico direbbe.

E così, lentamente, tra i dolori di una schiena storta e di qualche esistenza da riscrivere, si appresta l’alba sulla Ginevra aeroportuale, salutata dai tacchi delle hostess che sbattono duri e di buona lena sul pavimento di irregolare simmetria. Un altro giorno e un altro inganno cominciano.