Perdersi, Catania

Non conoscere è forse la più grande delle paure. In realtà, ma sempre dal mio modestissimo punto di vista, che è un punto infinitesimale, nullo nel pandemonio dell’Universo, non conoscere conforma tutti i gradi della paura: dalla timidezza che genera la non conoscenza di un sentimento, al più irrazionale terrore del soprannaturale, del buio, degli angoli più reconditi della nostra natura.

L’autobus delle 12 fa il suo percorso solito lungo le strade di Catania. Io mi rendo conto che non so nemmeno dove scendere. Per non sbagliare vado per l’ultima fermata, sperando di non essere tanto lontano dalla meta. La prima cosa che si vede all’imbocco per l’aeroporto di Catania è lo Stadio S.M. Goretti, steso in mezzo ai quartieri dei militari e alle rimesse degli elicotteristi oltre la strada e incastonato tra case tanto vicine che i vicoli sono solo un accidente dall’altro lato. Poi l’aeroporto. Alcuni compagni di questo viaggio silenzioso e solitario, che rimugina tra i fanghi dei ricordi e delle domande, lasciano il bus rosso alla fermata delle partenze. Ripresa la strada, viene fuori una parte del mondo che ruota intorno all’aeroporto. Gli aeroporti sono affascinanti terre di nessuno, colorati appoggi dell’effimero, del consumo, dove la necessità di far fronte alla noia imprevista spinge ad uno shopping compulsivo e sconclusionato. Dietro, ci sono le impronte di vita che l’aeroporto ha segnato. Non sono così tanti i posti dove abitare, ma di più sono le baracche delle attività che cercano di aprirsi agli avventori frastornati dagli atterraggi e dalle attese.

La solitudine degli spazi resi immensi dai buchi di una colonizzazione industriale a macchie si concretizza nel triste torrente dove sguazza un gabbiano in cerca di occasioni in mezzo ai lasciti passivi di una società che si rinnova prima che si accorga di aver accumulato già troppe ceneri. Indovino l’odore metallico e nauseabondo che esala il torrentello, mi ricorda gli avvelenamenti e le malattie, la contaminazione e il disastro. Tutto questo, in germe, scorre sotto di noi, dentro di noi e un giorno chiederà il conto.

Poi la strada si insinua come una lunga freccia fino al porto. A lato, in un labirinto di operosità e immobilità, sta la lunga teoria di containers tutti uguali, fermi da mesi o settimane, alcuni da anni, altri solo di passaggio. È già o ancora Catania, è una città di polvere e ricordi, l’Etna ha forgiato le concrezioni, bianca adesso dei capricci del tempo invernale, immobile, eppure la più dinamica delle città dell’Isola, sembra figlia dell’inizio secolo di ogni secolo passato, quando forse è più presente quella fiducia, tipica dell’umanità, sulle possibilità dei nuovi numeri. Arriviamo ad un piazzale che neanche la lunga tettoia bianca riesce a strappare all’anonimato, giusto vicino alla stazione. Il passaggio è un lungo viale che conduce ai portici, dove si raccoglie una vita tutta intenta a trovare nuove forme di immobilità. Sulla destra riconosco facce smunte e truci di somali e senegalesi, che ti controllano con avidità nel reperire informazioni. I loro occhi indagatori sono il segno della lotta per il possesso di quel lembo di terra, qualunque cosa rappresenti la forma di sostentamento intesa sulla vendita di cianfrusaglie stese su una stuoia bianco sporco, su cui si concretizzano geometrie astratte inizio anni ’90. Il centro è il fast food dell’Indiano, Alì – più tardi scoprirò essere un nome molto comune a questi ristoranti, mai scoprirò il perché – dentro il quale si raccolgono all’ora di pranzo gente di più provenienze, incastrati nel reticolo di conoscenze forzate dall’abitudine.

A meno di 5 metri c’è un bar dal marmo verdognolo, illuminato, com’è tipico per questo tipo di bar, dalla lugubre luce esterna, cui fa eco il cicaleccio stanco della televisione che nessuno segue, tranne il cassiere dai modi affettati. A riprendere l’immagine adesso, dietro il barista vedo i segni delle lunghe giornate dei ricordi, in attesa di un treno o di un autobus che ti porti altrove: quattro file di alcolici guardano fitti e muti gli avventori, chiedendo attenzione. Ci ritrovo perfino due bottiglie di Chartreuse, che mi ha accompagnato in una serata svizzera con la neve sui tetti e il cielo blu e violetto dei tramonti delle montagne, cui regalo un sorriso complice di omaggio. Addio Chartreuse, non sarai mai la stessa cosa, qualunque sia la temperatura stagionale.

Buttati a caso ci sono ancora due o tre bar, cui fanno da contrappunto, quasi inanimati, barboni dormienti al sole freddo e salmastro che si infrange con il vento sulle cose, due Ucraine di mezza età dalla parlantina priva di gesti e qualche lavoratore stanco, che tenta evoluzioni da equilibrista della mente per far fronte a quello stato di noia profonda che fa da compagnia al pendolare. La città sonnecchia a lungo e mi ritrovo a trovare assurdi i gesti conosciuti e spavaldi che altrove non lasciano nemmeno il tempo alla riflessione. Attraversare è uno spauracchio di cui mi accorgo troppo tardi per non lasciar spazio all’esitazione sulle strisce pedonali, quanto è forte il frutto della suggestione.

Mi inoltro nel pomeriggio dentro un caffè a fare discorsi appassionati con gente che ha vissuto sui campi di rugby anche le vite dei compagni e degli allievi e ancora riesce ad amare lo sport che tutto può prenderti con spietatezza, ma senza che tu te ne accorga. Catania resterà ancora imbevuta del fascino dell’esplorazione, nonostante piano ricerchi gli strumenti per impostare una mia geografia del posto.

Dopo la lunga giornata sono al piazzale anonimo con la stessa paura dell’ignoto del mezzogiorno. Ho lasciato ammaliarmi da Alì e dal suo imbonitore vestito di bianco e la lingua schiocca di piccante e fritto. Sto tornando a casa, al riparo, ritirandomi da ogni accenno di ricerca in attesa di questa provvisoria delibera.

Esercizio #15 – Il deserto dei Tartari

Il deserto è un luogo dell’anima, primariamente. Il deserto vive dentro di noi ancor prima di esistere come luogo fisico. Tuttavia i deserti sono meno lontani di ciò che si pensi.

 Viale dei Picciotti, Palermo, Italy

Viale dei Picciotti, Palermo, Italy

Scirocco. Duro, polveroso scirocco che non permette di respirare soffia su tutta la città. Rammolliti, ci si ripara con la flemma, fino all’inattività, il silenzio, bevuto su una birra ghiacciata, fissando il nulla. Mi ritrovo dove mai prima d’ora ero stato: il viale dei picciotti per me fino a qualche giorno fa nemmeno esisteva. Adesso so che comincia dove Palermo si dimentica del fiume Oreto, là dove si getta verdastro in un mare inaccessibile, che sta lì solo a segnare un altro confine tra i milioni di confini di questi quartieri di una parte di città spesso dimenticata e che, forse, ha fatto di tutto per farsi dimenticare. Non troppo lontano, come cadaveri penzolanti da una forca, i materiali di risulta del progresso. Le ciminiere di mattoni delle industrie di fine ed inizio secolo ormai smantellate, così come gli scheletri delle enormi cisterne ed infine tutto attorno speculazione edilizia, come corvi a divorare ciò che resta. Palazzi di 12 e 14 piani di edilizia popolare, dalle architetture ricavate dalla testa di Escher, dove si perdono scale rugginose su mattonelle bianche e azzurre e le porte delle case sembrano sospese sui muri.

Maurits Cornelius Escher - Relatività - Luglio 1953

Maurits Cornelius Escher – Relatività – Luglio 1953

Qui la vita stessa appare abusiva. Da ogni anfratto si ricavano box in lamiera, chiusi da grossi lucchetti, mentre nel giro di 5 minuti passano 5 ambulanti diversi vendendo dalla verdura, allo sfincione, fino ai moci. Dal bagagliaio di una di queste auto scorgo la scatola dove viene riposto il megafono, cui è stata sovrapposta una grossa scritta in uniposca nero “bannia”. Le cose assumono quell’aspetto talmente folkloristico da sembrare surreale, quasi che gli attori in campo godessero nell’esasperazione dei comportamenti più kitsch riconosciuti alla città. Poco dopo, quasi in punta di piedi, passa una gazzella dei Carabinieri. Riesco a rivedere tutta questa scena con gli occhi di un militare friulano, sbarcato qui a tentare di mettere ordine: come riuscire a mettere ordine, se non si riesce a capire nemmeno qual è la regola che in questo momento regna? Alla fine mi scopro neanche troppo lontano da questo Carabiniere friulano. Sono straniero in terra straniera a due passi da casa mia e qui ancora mi stupisco della straordinaria capacità dello Stato di essere ironico. Le traverse di viale dei picciotti sono quasi tutte intitolate a patrioti italiani, fino al grande colpo di teatro: la via Antonino Saetta, magistrato ucciso dalla mafia nel 1988 (ma non un riferimento al fatto che sia stato vittima della mafia è presente sul cartello di indicazione).

Antonino Saetta (1922 - 1988), magistrato vittima della mafia

Antonino Saetta (1922 – 1988), magistrato vittima della mafia

In mezzo ai palazzoni, agli abusivi, ai posteggiatori il giudice Saetta e la sua memoria sono lasciati soli. Chissà cosa succederebbe se chiedessi chi fosse il giudice Saetta qui. Eccolo il mio deserto, tra gli autobus posteggiati al sole in attesa di accedere all’autolavaggio a loro dedicato, con le facce smunte dei vecchi mangiati dal sole e dalla salsedine ad ingrossare gli ultimi scampoli del fegato sotto delle lamiere tappezzate di manifesti elettorali, forse anche sede elettorale del candidato nella zona. A cosa abbiamo lasciato in mano il ricordo del giudice Saetta? Forse ho un po’ perso la speranza. Forse ho appena cominciato a serrare i denti.

Esercizio #14 – Esercizi a nudo, ovvero Vinicio

A distanza di 6 anni, sono là, ad Agrigento a respirare quella coltre di polvere elettrizzata, eccitata e sudata, quelle scarpe che cercano posti per il concerto di Vinicio Capossela.

Rebetiko Gymnastas - esercizi allo scoperto, Concerto di Vinicio Capossela, 16 Agosto 2012, Agrigento, Valle dei Templi

A distanza di 6 anni, quante cose sono cambiate? Io sono diverso e, ne sono certo, lo è anche lui. Guardo il palco, gli spettatori, la cornice della Valle dei Templi, con le luci arancioni a ricordare quelle vestigia di un passato che si respira dovunque lì e che, ogni volta che ritorno da quelle parti, mi pare di poter indovinare ad ogni slargo, sopra ogni pietra, in mezzo alla natura ridondante di ristoppi odorosi.

6 anni sono passati e forse anche questo spettacolo è figlio dei nostri tempi, di questa crisi che ci abbrutisce. Il pubblico è nervoso e si lascia andare a commenti cattivi sugli altri spettatori. Ciascuno vuole vedere il suo biglietto a prezzo popolare ripagato come se fosse il Concerto di Capodanno. Vinicio è un evento. Vinicio è un evento mondano prima di tutto, categorizza le persone che ci vanno. Andare a sentire e vedere Vinicio ti fa diverso da altri che non ci vanno e che non ci andranno mai. Suona un po’ come “fatti una cultura”, ma fallo con grottesca finezza.

Esercizi a nudo, dice lui, e il palco non è quello mastodontico e ridondante del Grand Tour, ma è minimale, due file di luci da festa e dietro teli rossi, nulla più. Mi chiedo se sia la crisi o se la crisi è ancora di più uno stato d’animo che si riflette sulle cose, sugli eventi, per riscriverli a sua volta. L’illusione di essere spettatori della Magna Grecia allora è forte. Al buio, lì dove hanno camminato antichi progenitori puoi sentire la magia avvolgerti e non più immaginare, ma sentire il rumore di quei secoli altrimenti corrosi dalle intemperie, niente più che pietre mute. Suona sui ricordi Vinicio, racconta di quegli sbagli che pesano sul cuore, anche lui forse invecchiato dai suoi stessi errori diventa malinconico, per poi balzare ancora sul caos, darsi alla festa, fuggire, rientrare, fuggire ancora e poi ancora rientrare.

Vinicio, Rebetiko Gymnastas, Esercizi allo scoperto, Agrigento - Valle dei Templi

Da sotto il palco noti le storie scolpite nelle facce dei musicisti Greci che si porta appresso. Vinicio è Ahab con il suo gruppo di rematori Parsi, ammantati nel mistero, per quanto stavolta risulti gioioso e giocoso, che conducono, remando sulle corde pizzicate, sul fiato dell’organo e della fisarmonica, verso i lidi della Grecia popolare, verso un folklore per tanto tempo offuscato da antichi fasti. Come in Moby Dick, alla fine resti un Ismaele naufrago, avvolto nel silenzio di un sé che medita.

Il Mangas - Rebetiko Gymnastas, Esercizi allo scoperto - Concerto di Vinicio Capossela, 17 Agosto 2012, Agrigento, Valle dei Templi

Le pietre antiche assorbono ogni pensiero.

Valle dei Templi

Esercizio #13 – Partenze

Risveglio impastato senza sveglia, a tappe: 07.17; 09.17; 09:21. Il letto mi ha risputato fuori alla stessa maniera di come mi aveva accolto: stanco, con la schiena rotta. No, non dormo bene. Capita di tanto in tanto e leggo il perché anche nei sogni che faccio.

http://www.youtube.com/watch?v=Z0kGAz6HYM8

Ho raschiato il fondo di alluminio della confezione del caffè. Gli ultimi granelli di macinato finiscono sulla carta da cucina, dimenticati attorno alla forma della caffettiera che, piena, non li ha voluti, il mio ultimo caffè in Svizzera. Adesso che sono alla fine la testa tira strani scherzi: ricordo nitidamente le voci che mi hanno accompagnato in questi mesi, l’accento di r arrotolate come nessun altro fa in tutto l’universo francofono, i posti, i (pochi) odori, qualche esperienza, tutto poi si mischia a creare un enorme melting pot senza capo né coda, dentro il quale si segue una storia senza intreccio, senza inizio o fine. Non mi chiedo più di tirare le somme, so che qualunque metro di giudizio provi ad utilizzare sarà incompleto ed inutile. Ritorno al mio caffè.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Più di tutto mi sono attaccato al caffè per sentire ancora un po’ l’aria di casa, per non dimenticarla, per resistere alla durezza di temperature mai provate, di deserti silenziosi, dove, alle volte, non sono riuscito a carpire la presenza umana. In buona sostanza me ne vado. In buona sostanza posso dire di non aver capito. Nel caffè, allora, rivedo la mia lunga partenza, questi 10 mesi, come un giro lungo per ritornare a casa, a posti che posso adesso riconoscere con più leggerezza. Prendo il primo sorso con movimenti compassati, odoro, ancora prima di portare alle labbra, l’asprezza a tratti tannica, l’ubriacante mielosità dell’arabica. Più di tutto mi è mancato il mare.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

La prima volta che sono tornato, la mia valigia era piccola, modesta: portavo i vestiti per una settimana, ma dentro di me avevo la pesantezza di molte cose da sciacquare via. Andavo via da un mese di nebbia, intrappolato dentro un enorme nulla, nemmeno il lago poteva darmi quel respiro che qui pian piano si faceva sempre più corto e affannoso. Volevo lavare via la stessa durezza melanconica con cui ero partito. Ho cercato l’odore del mare e, sorpreso, non sono riuscito a trovarlo. Era scomparso dalla mia testa. Al secondo sorso di caffè la mia lingua si irrigidisce al contatto acidulo. Lo apprezzo, lo faccio diventare introspezione. Più di tutto mi sono mancati gli amici.

Ho vestito la maglia della mia squadra, la maglia della mia famiglia acquisita per tre volte quest’anno. Ho preso il mio bagaglio di abbracci e sono ripartito, trattenendo le lacrime dolorose di un distacco che io stesso ho cercato. Allora mi sovviene la storia della rana e dello scorpione e mi dico che, forse, è la mia natura. La mia natura: adesso ricordo che ero partito per trovarla. Tuttavia, partire e fuggire, partire ed esiliarsi non sono la stessa cosa. Al terzo sorso, uguale al secondo e uguale forse a tutti i secondi e terzi sorsi che ho preso da ogni tazzina di caffè, vedo appena il fondo. Più di tutto mi è mancata la famiglia.

La prima sera che ho dormito di nuovo nel mio letto ho dormito come mi sembrava di non aver mai dormito in vita mia. Un sonno lungo, pieno di sogni, consolatore. Lì dove ho la mia famiglia so che ho casa mia e ancora, nonostante il tempo mi abbia fatto crescere la barba e mi abbia accompagnato fuori di casa con l’impellenza di decisioni volte al futuro, riesco ad emozionarmi per un bacio di mia madre, a sentirmi protetto, come da bambino, tra le braccia di mio padre. A pensarci, in quella casa in campagna dove torno e che chiamo “casa”, lì si sono condensate migliaia di esperienze, si è consolidato un éthos. A toccare le mura ruvide posso sentire le mani callose di mio padre, così come la sua passione, e ancora sul lungo e liscio tavolo di legno massiccio rivedo la sua pazienza silenziosa. Da piccolo il suo meditare era per me un inesplicabile mistero, adesso so che al di là della sua mutezza ci sono mille progetti con un futuro ed uno scopo. E adesso, che la disillusione ed il cinismo mi hanno fatto addosso una dura scorza di cicatrici, c’è ancora una favola che resiste al tempo: mio padre è il mio unico eroe, l’unico di cui davvero vorrei riuscire a seguire le orme. Al fondo della tazzina resta qualche granello bruciacchiato, imbevuto di un caffè che sa poco di caffè. Più di tutto mi è mancata una vita.

E lì sul fondo, a poche ore ancora dall’andare a riprendere tutto, dipanando meglio i fili di Lachesi, posso risentire quella voce che mi aspetta, caracollando tra l’impazienza e la calma. Il mio prossimo caffè avrà due tazzine.


Esercizio #13 – Gabbie

Il gatto è il vero padrone di questa casa. Dorme, mangia, vive qui ventiquattr’ore su ventiquattro, ogni giorno di ogni mese di ogni anno. Il gatto è il vero padrone della casa.

Contrada Iria, Sant'Agata Militello (ME), Sicilia, Italia

Sonnecchia sui divani, sui letti nelle posizioni più complesse e plastiche come un acrobata della pigrizia, stanco forse di un pensiero di troppo, quel pensiero che lo fa ancora più pigro. I suoi passi, glissati come un piatto jazz, di tanto in tanto si possono sentire rompere l’immane e spaventoso silenzio di una casa svizzera, affogata nella calma piatta ed irreale di Planeyse, il trait d’union tra Colombier e Bôle, dove solo la ferrovia ruggisce di tanto in tanto, come un mostro che ammonisce i villici della sua presenza ad intervalli regolari. Non c’è mai fretta nel suo passo, bonario com’è, non ha mai torto un capello nemmeno ad una mosca. Ha tutto ciò che vuole, non potrebbe essere altrimenti, avendolo, con crudele egoismo, privato perfino della pulsione sessuale. Maschio, ma solo perché non potrebbe essere femmina, il gatto è il re.

Lo osservo mentre guarda fuori dalla finestra, conserte e immobile per ore, mentre fissa il giardino dove altri gatti – alcuni obesi e grevi, altri snelli e furtivi – lasciano che il sole li riscaldi, chiudendo gli occhi su un sonno annoiato, ma che sembra essere benedetto da chissà quale divinità. Guarda fuori, e sento le sue paure e i suoi desideri uscire forti dalla sua testa nera ad ogni movimento di orecchie. Là, nel giardino, tra le siepi, sotto il fresco di un albero lui vede la sua vita, quella che non potrà mai avere, quella che la sua codardia e la sua pigrizia hanno scelto di non dargli.

Proiettato adesso su di lui, poi curvo sul mio computer a scrivere, mi rivedo come il gatto in quest’istante: nell’aria di dismissione lungo cui sto lasciando scorrere il conto alla rovescia di queste ultime giornate svizzere, costretto in casa dagli ultimi esami, costretto dalla mia pigrizia, dalla nervosa indolenza del dovere, non sono poi così diverso dal gatto. Le mie paure e i miei desideri sono più grandi, ma le nostre condizioni ci accomunano e per questo ci evitiamo con distratta attenzione, per non rivederci così stretti l’uno negli occhi dell’altro. Il gatto è il re della casa, ma è lo schiavo di se stesso. Il gatto, in fin dei conti, ha paura di rompere la sua dorata maledizione.

Così alla finestra, mentre vedo il verde splendente di una domenica mattina che annuncia estate, vedo anche il mio riflesso. Guardandomi sto guardando la mia prigione.

Planeyse, Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Il Drago è solo, gli uomini ne fanno un dio

Scavo più in profondità dietro gli occhi sdoppiati dal vetro. Una voce rassicurante, mia come può essere qualcosa di voluto con ogni fibra del corpo, mi dice:

– “Svegliati, stai tornando” –

– “A casa” –

Esercizio #12 – Casa e case

La mia camera è in perenne stato di emergenza. Il disordine e la polvere, come in ogni camera di uno studente uomo di venticinque anni celibe, regnano sovrani incontrastati. La mia camera mi rappresenta. Le case delle nostre vite ci rappresentano e sono il nostro specchio.

Mi sembra di essere in Svizzera da una vita o mi sembra che la mia vita non sia mai stata davvero da un’altra parte. Mi sveglio la mattina e ho la labirintica sensazione di una Sindrome di Stoccolma continua. Sono a casa? No, non sono a casa. Dove sono? Sicilia o Svizzera? Poi la riaffermazione della verità. Andrò fuori dalla mia camera e sarò in un Paese straniero. Entro le mie 4 mura, forse, sono un po’ più a casa mia.

Tuttavia hanno sempre avuto l’aspetto della provvisorietà intriso fin dentro le pareti. Da questo punto di vista le mie camere hanno la stessa conformazione di quelle d’albergo: mobilia kitsch e standard, nessun quadro, poster o fotografia, lo stretto indispensabile, montagne di disordine e la valigia sempre aperta, anche quando sono passati 4 mesi dall’ultima partenza. Questo stato mi ricorda come vivo: continuo dubbio e attesa dello stadio successivo, sapendo già che un giorno chiuderò per l’ultima volta la porta di quella stanza dietro di me, avendo ripreso le mie cose per metterle di nuovo nel mio guscio di lumaca, con la mia casa sulle spalle o richiusa dentro un trolley. In questo stato di caos, di continuo passaggio tra una crisi e l’altra, nel senso più turneriano del termine, c’è sempre spazio per i libri e per gli scontrini. I primi si nascondono talvolta bene, ma dentro hanno interi pezzi di vita. Ricordano momenti o interi periodi. Ci sono le Cosmicomiche di Calvino, lette per la prima volta in un agosto di novità e poi rilette ad una voce desiderata come favole per inguaribili adulti visionari; c’è stato e adesso riposa tranquillo – a stagionare prima della prossima apertura – Saggio sulla lucidità di Saramago, letto nel giro di una notte, fino all’alba soffiata di un inizio giugno. Come le stagioni, riposano per essere in seguito ripresi, i libri.

Gli scontrini, invece, invadono indiscriminatamente ogni anfratto: scontrini di supermercati, bar, pub, ristoranti, bancomat, biglietti di treno e di aereo, brochure mai lette di iniziative sconosciute in posti in cui non vorrei mai avere accesso, linguacce di trasfigurate gothic girls che mi ricordano che i rave e i goa in Svizzera vanno forte. Ci sono appunti mai riletti con penne che adesso si perdono nei tascapane o nelle borse di qualcun altro, mappe, pezzi di carta, promemoria riletti con tre mesi di ritardo. Gli scontrini dicono anche loro della mia vita: mi ricordano la spietatezza del consumo, una parola che in Svizzera ha un senso orribilmente importante, mi rimettono frammenti di vita, che si aprono con un nome accattivante e si chiudono con un “Merci de votre achat” o “Grazie e arrivederci” o “Thanks and goodbye”. Frammenti, appunto, lunghi come una serata o di svogliata necessità come latte, pane e carne scritti e riscritti sopra esose quittances di coloratissimi, illuminatissimi e asettici supermercati. Siamo ciò che mangiamo, senza remissione di peccato.

Ora che ho finito le mie spicciole pulizie, rivedo questa casa nel suo insieme. No, non c’è la mia mano qui, se non oltre la mia porta, ma fuori leggo i percorsi di un’altra persona e ogni volta resto stupito ad osservare. C’è l’irrequietezza di questa società, che si trova sospesa ancora tra un coro alpino e una massima del feng-shui. Così, accanto a fiori di campo e piccole mucche con la croce bianca sul fianco ci sono elefanti indiani in piedi grazie all’intreccio di fibre scure che non odorano più del posto da cui vengono, tutti questi oggetti disposti secondo l’arte zen dell’arredamento, bilanciando le energie, per un ambiente friendly and comfortable. In 9 mesi, durante ogni settimana, almeno una volta a settimana, ho assistito al balletto degli stessi mobili e delle stesse tende spostate di stanza in stanza, poste in verticale o in orizzontale, appoggiate ad un muro o ad un altro. Qui comincia il mio campo minato, nel cercare ogni volta di comprendere le nuove geometrie, mentre, come armata di sua propria volontà questa casa cambia, si muove, progredisce. La mia giungla di traduzioni mancate comincia al di fuori della mia porta.

http://www.youtube.com/watch?v=Uf7tPf7z1Hk

Piano piano, ogni giorno sempre di più, mi riappacifico con quell’altro me lasciato in un’altra stanza che chiamo ancora casa a 2000 km di distanza e ne aspetto un’altra – di casa – tutta da costruire con le idee, con un cammino che si accresce. Dentro queste camere posso sentire le mie mani poggiare cose nuove, desiderare contatti con oggetti conosciuti, respirare gli odori di una routine imparata con anni di esperienza. Casa mia è dove poso il mio zaino, dove ho lasciato le mie magliette in attesa.

http://www.youtube.com/watch?v=kr2gRni7bio

Esercizio # 11 – Bollicine

La socialità è un bicchiere pieno.

Bere, l’atto di bere, ha – forse a tutte le latitudini – una “sacralità” particolare, è investito di compiti e di interdetti che rendono l’atto del bere dell’alcol, del caffè o qualunque cosa che non sia della semplice acqua – anche l’acqua stessa può essere, in ogni caso, non interamente acqua, se viene caricata di particolari connotazioni – un atto delicato, di alleanza, sfida o gioco. Tondo è il bicchiere, tondo è il mondo, circolare dev’essere la nostra amicizia.

Bere insieme racconta cose, immerge pensieri nel fondo di vetro, poi li affoga di materia che, come tutti i “phàrmaka” – medicine, rimedi – è anche veleno. Avvelenarsi, andare a fondo. E che un bicchiere scacci l’altro, che un bicchiere scacci la paura, le domande, le incomprensioni. Beviamo perché il mondo comprenda noi incompresi. Beviamo perché l’eco dei bicchieri sbattuti vuoti sul tavolo sia l’eco delle nostre risa, la spigliata noncuranza delle nostre parole, la rabbiosa riserva del fumo alcolico che esce ruggente dalla bocca. “A secco!”. Ordine perentorio, sfida di resistenza, gioco dei limiti. E nei bicchieri si riprendono miscele strane, mai uguali nelle proporzioni, ma sempre identificati con nomi terrificanti o rassicuranti, sensuali o apocalittici. Black Napalm, Cuba Libre, French Kiss. Il fuoco invisibile ti brucia la gola, ti fa ridere l’anima, ti fa perdere gli occhi. Chi sei tu?

Nel parlare infine biascicato ci sono brandelli di verità. Chi parla dal profondo gonfio d’alcol? Chi rimette se stesso dal labirinto del Minotauro? Come sciamani caduti in disgrazia, tutti hanno un modo di divinare il proprio fondo oscuro. Lì dove si annidano tutte le nostre animalità, come un buco nero, guardi il tuo buio. E lui guarda te, finché finalmente né l’uno né l’altro hanno più i limiti imposti dal controllo dei tuoi occhi e degli occhi degli altri. Le porte del Tartaro spalancate a fare uscire demoni gioiosi o terribili satiri, centauri iracondi. È una libertà caotica, uno charivari che implode, gorgoglia, si soffoca solo, poi monta ancora ed infine si assopisce sfatto.

Siamo poveri diavoli, in preda alle nostre possessioni.

Esercizio # 10 – Fino al sole

Oltre un oggetto c’è un segno. Oltre un segno potrebbe esserci un simbolo. Quello che ogni simbolo racconta è una storia.

Come ogni venerdì – in Svizzera, in Italia si tratta del sabato – ho tenuto i miei scarpini in mano per pulirli, per rimetterli a nuovo. In realtà non si tratta solo di questo. Lasciati al loro destino per tutto il resto della settimana, quando si accumulano il fango e la polvere degli allenamenti, che scandiscono il tempo di un rugbista meglio ancora di quanto non faccia una settimana, vengono riesumati da qualche borsone putrido dalla scorza ruvida della fibra sintetica, che sotto le dita ha un rumore e una sensazione particolare, come se l’ordito fosse tanto tangibile da azzeccare ogni punto. L’odore è forte: sudore, erba, terra, acqua accumulati e lasciati seccare e decantare come se fossero trofei, a creare quella sensazione pungente che chi è entrato in uno spogliatoio conosce bene. Quell’odore ti guida ogni giorno di allenamento e di partita, è come l’odore di casa, appena lo senti, sai che va tutto bene.

Prima di cominciare a pulire, mi perdo a guardarle nei dettagli. No, non sono perfette. I lacci cominciano a mostrare i primi sfilacciamenti, i tacchetti sono usurati dal continuo sfregamento su qualsiasi tipo di superficie e sembrano quasi dei canini spuntati, la pelle laccata comincia a mostrare, vicino alla suola, qualche segno di cedimento, dovuto all’assestamento sul mio piede, ai continui shock, infine all’incessante ingiuria degli agenti atmosferici. Qua e là mostrano qualche piccola scalfitura: tacchetti altrui, se ne vedono bene i profili, come di graffi di animali feroci. I miei scarpini sono come me. Sono storto di mille dolori, le mie dita ogni mese che passa segnano nuove storture e braccia e gambe in particolar modo mostrano i segni della tenzone. Eppure io e le mie scarpe siamo là. Abbiamo superato, indenni o meno, un numero che non ho mai contato di durezze e di asperità, mi hanno visto correre e camminare e mi hanno visto bloccato, placcato, calpestato. Su di loro, però, mi sono rialzato.

Comincio a togliere via il grosso con una pezza umida, con movimenti energici a seguire le cuciture, vicoli sotto le mie dita, che indicano la forza che tiene insieme la leggerezza della tomaia, i tacchetti, sei da trequarti, in alluminio, la gomma flessibile della suola. Tolgo le incrostature della settimana e con esse le preoccupazioni, mentre ripasso mentalmente il lavoro fatto, ripasso come sono arrivato a quel momento, tento di eliminare quella sensazione di teso vuoto che si annida allo stomaco e sotto il cuore a toglierti il respiro e che l’indomani sarà il ticchettare nervoso dei tacchetti vestiti sul cemento anonimo di uno spogliatoio, umido come una tana, imbevuto di umanità sudata e nervosa di testosterone, calda di canfora. Visualizzare, chiudere gli occhi, visualizzare gli obiettivi. Come un aruspice, dietro ogni pensiero interpreto come andrà domani, cercando sempre di scacciare gli influssi negativi, mentre continua, lento e deciso, il lavoro di pulitura.

Adesso il grosso è tolto, il colore non si nasconde più dietro la patina d’erba martoriata dallo schiacciamento, né dal fango schizzato violento ad ogni calpestamento. Adesso ritorna alla luce un blu forse un po’ opaco, ma ancora abbastanza brillante, e allora penso che io e i miei scarpini condividiamo molto più di uno sport, ma la vita. Sappiamo, io e le mie scarpe, che dalle ferite non si può tornare indietro. Ogni taglio, graffio, distaccamento ci ha cambiato irreversibilmente. Il mio naso rotto come la pelle mezza scollata, le mie giunture doloranti come i tacchetti smussati. Eppure anche questo è crescere. Anche questo ci rende umani. Ogni passaggio verso un uomo nuovo è segnato da una cicatrice e ogni cicatrice è un monito, una prova.

Dentro la luce artificiale della caverna-spogliatoio, adesso, in mezzo ad altri respiri forti, comprendo perché la haka dei guerrieri Maori è stata presa dagli All Blacks e non si tratta solo di puro folklore. Lo spogliatoio è l’ultimo passo, l’ultimo passaggio. Solo passo dopo passo – A Upane Ka Upane – in bilico tra la vita e la morte, tra il coraggio e la paura – Ka Mate Ka Ora – si può guadagnare la luce, il Sole, la vittoria – Whiti te Ra -. Il terreno scricchiola dei passi tacchettati. Sono al mio posto.

Esercizio # 9 – Ritorno a casa

Il cielo di Palermo all’imbrunire si apre verso l’infinito. È come un’immensa tavolozza di gradienti che va dall’arancione incandescente e in 180° tocca ogni sfumatura fino a che le mani affusolate della notte, là verso Bagheria, non comincino piano ad accarezzare l’aria. Palermo è intrisa di ricordi.

Mi sono ritrovato imbevuto di quest’aria familiare, per quanto il primo impatto sia stato di incomprensibile caos – sono già così aduso alla pacata vita svizzera? – e dentro di essa, respirando a pieni polmoni, ho trovato una dimensione di casa. Ho atteso per potermi immergere nella notte dai profumi desiderati e fondermi per trovare il mio posto dentro l’anello di Moebius, così adesso ho l’opportunità di trovare pace, nel posto da cui tutto era partito. Ho atteso la fluttuante calma del mare e il suo odore denso per potermi sentire finalmente libero. A Palermo, mentre guardo aprirsi il golfo e una nave si allontana maestosa con le sue luci di piccola città galleggiante, comprendo la natura stessa dei mari e degli oceani: per quanto lontano si possa andare, girandosi attorno ci sarà sempre abbastanza acqua per non porsi confini. Solo dal mare, quindi, poteva nascere tutta la vita e tutte le vite possibili. Così Palermo riflette il mare e lo condensa in strutture architettoniche, in strategie urbanistiche, in rumori, essenze, suoni, colori, storie, ancora una volta vite.

Palermo ha i suoi strati che si confondono, in cui trovare confini è un’impresa per turisti e guide, mentre invece la città si lascia scorrere su un canovaccio dalle interpretazioni e sfumature infinite e ancora più raffinate. Palermo è una città dalla ricerca continua, immersa nella sua trasandatezza e da essa allo stesso tempo impreziosita, e per questo va piano scoperta e riscoperta, su tragitti che, per quanto banali, anche dopo anni possono nascondere sorprese. Qui l’umanità è immanente e odora di polveroso, putrido, dismesso, abbandonato, distrutto o si glorifica di bellezze rare, di fragranze inattese, mischiate nella discordanza cui solo i sensi esperti possono trovare un verso, là dove “verso” indica la condizione dinamica del continuo divenire, in un ciclo che va dal traffico, alle urla dei bambini, dagli strepiti, alla neomelodica che si spande come un mal di pancia dalle finestre aperte, dal jazz dello Spasimo, al martellare incessante di Y10 svuotate di tutto tranne che del motore per fare largo ad impianti stereo da concerto a San Siro. Adesso mi ritrovo compreso tra standard comprensibili: l’uomo, il palermitano, si riappropria di tutta la città, di tutti i suoi tempi e spazi, mettendo in scena spettacoli unici in luoghi fatti arene e teatri per l’occasione. Tutto è teatro a Palermo: è fatto per fotografare momenti in pose di folklore o di squallore, così come di indicibile e peculiare kitsch e ancora di inenarrabile bellezza, dove il tufo, il marmo, le maioliche, i gruppi statuari contorti svettano al di sopra di vite diroccate dentro case diroccate e mai si sa dove il prossimo spettacolo dipanerà i suoi fili o dove tornerà ad intrecciarli. Perfino la bruttezza sa essere bella a Palermo, là dove si fa faccia, e la faccia vissuto, e il vissuto storia, e la storia tutte le storie. Allora non tocca mai chiederti, in quest’enorme caos continuo e figlio di numerosi ordini, dove sono i Palermitani, ma dov’è Palermo. La risposta è: quale Palermo?

Esercizio # 8 – Twickenham: rugby, birra e… tabacco da naso

Londra è abbastanza grande perché anche un evento come la Heineken Cup possa restare solo una partita di rugby. Nell’immenso insieme di blocks identici a gruppi che squadrano le strade della capitale dell’Impero, le storie di Twickenham nell’anno dell’Olimpiade sono come le rane nello stagno. Però, che stagno.

Il Twickenham Stadium è fatto per stupire e per far riflettere. Rispetto anche al più grande dei giocatori, la grandissima struttura in metallo e cemento armato (di per sé non il massimo dell’eleganza) è imponente, preponderante e annulla – o vorrebbe farlo – ogni velleità umana di grandezza. Anche questo è il rugby e questo ricordano anche le statue di bronzo che immortalano pose plastiche attorno al grande protagonista, l’ovale, l’unica forma che conta. In ogni caso, rispetto al leggendario e fantomatico William Webb Ellis, il divino Brian O’Driscoll è solo un altro giocatore, un accolito – magari tra i più zelanti – di un culto che va al di là della consacrazione del singolo. Twickenham è oltre le storie dei singoli giocatori, è semmai il loro grande orecchio di risonanza. È quell’atmosfera surreale e frizzante che si respira tutto intorno e dentro esso. Se ami il rugby, quello è il tuo posto e poco importa che tu sia probabilmente lo spettatore che venga da più lontano, con inglesi ed irlandesi che chiedono curiosi se in Sicilia si giochi a rugby – “Iron Team RFC? Do you mean Aironi?” – in quel momento sei parte di un rito, di un “atto di amore” verso una disciplina, di una comunità che si federa intorno alla condivisione di una passione.

Si entra finalmente a Twickenham dopo una lunga salita, ascoltando idiomi diversi, con sfumature di accento ancora più diverse, ed è come affacciarsi su un grande balcone che dà sull’infinito. Il campo verde come poche volte è capitato di vedere (per quanto il Millennium Stadium sia ancora meglio da questo punto di vista), i pali bianchi imponenti, l’odore del rugby che conta, come se avesse un odore riconoscibile, che forse è quello dell’erba fresca che tra poco sarà calpestata dai protagonisti di questa giornata e un po’ è l’odore di tutta quest’umanità varia, che respira di birra, traspira del sintetico delle magliette, si accompagna con gli effluvi della carne arrosto o con quello più dolciastro degli hot dog con le loro salse. Fare amicizia tra gli spalti, allora, è normale, anche perché è facile riconoscere quattro italiani in mezzo a tanti inglesi, dato che sono gli unici che si muovono, urlano, cantano e ridono come gli altri fanno solo quando sono già molto ubriachi e ben presto si diventa il centro delle attenzioni. Tra tre ordini di gradinate è tutto uno scambio di doni che farebbe diventare matto il miglior Malinowsky, tra bicchieri di birre alla spina e passaggi di tabacco da naso che a noi, neofiti dell’arte, fa restare con facce sempre più strane. Per certi versi, la vera partita è tra gli spalti, tra tutte queste esperienze diverse che si incontrano, ridono e si confrontano insieme. Poi finalmente è il campo a parlare. Davide contro Golia? Forse, anzi sì, e lo si vede già dagli spalti, dove il blu è presenza preponderante e prepotente e il bianco si lascia relegare in un benché ampio lato. Per un tempo Davide sembrava potercela davvero fare, esprimendo un gioco che, al di là dei molti errori e forse di un’organizzazione generale meno oliata, era sicuramente più gradevole, ma i Dublinesi hanno fatto vedere cosa significa essere i campioni in carica e favoriti. Sornioni, senza mai davvero rischiare, hanno lasciato sfogare l’avversario, per poi colpirlo una prima volta, cosa che attenua il caloroso pubblico nordirlandese, e poi cerca di affondare il colpo della tranquillità, trovandolo senza troppe difficoltà prima della fine del primo tempo. Con undici punti di vantaggio, sebbene Ulster sembri di poter tenere botta, è facile immaginare che il Leinster amministrerà il secondo tempo. Senza mai davvero spingere troppo, così, la squadra campione difende, ruba, fa cambi di fronte, gioca con tranquillità e permette anche ai bianchi di infiammarsi nuovamente, per spegnere poi definitivamente ogni ardore con la quarta e la quinta meta. Recriminazioni? Delusione? Nessuna. Le parole che più frequentemente si sentono dal lato di Belfast sono – “they deserved it” – l’hanno meritata. Alla fine, come sempre, è il rugby che ha vinto ed è ancora più curioso come tra gli spalti ci si complimenti a vicenda, quasi che siano stati i tifosi stessi a giocare la partita, cosa che in un certo senso è vera. È una performance collettiva, che investe ogni singolo presente e lo trasforma in attore.

All’uscita c’è ancora il tempo per fare nuove e brevi conoscenze attorno ad un pallone che, lanciato in aria a mo’ di up & under, condensa un numero sempre maggiore di persone, fino a quando, come ai tempi dei calzoni corti, il proprietario della palla non deve andare. Lasciamo Twickenham esausti, felici, con gli occhi brillanti della nostra prima volta in uno dei grandi templi del rugby. La festa impazza e risuona anche da lontano e per molto tempo ancora. Per strada, riconoscendosi per i colori sulla faccia, ci si saluta come partigiani e fratelli, avendo fatto parte di un altro piccolo grande miracolo nell’immensa Londra.