Esercizio # 10 – Fino al sole

Oltre un oggetto c’è un segno. Oltre un segno potrebbe esserci un simbolo. Quello che ogni simbolo racconta è una storia.

Come ogni venerdì – in Svizzera, in Italia si tratta del sabato – ho tenuto i miei scarpini in mano per pulirli, per rimetterli a nuovo. In realtà non si tratta solo di questo. Lasciati al loro destino per tutto il resto della settimana, quando si accumulano il fango e la polvere degli allenamenti, che scandiscono il tempo di un rugbista meglio ancora di quanto non faccia una settimana, vengono riesumati da qualche borsone putrido dalla scorza ruvida della fibra sintetica, che sotto le dita ha un rumore e una sensazione particolare, come se l’ordito fosse tanto tangibile da azzeccare ogni punto. L’odore è forte: sudore, erba, terra, acqua accumulati e lasciati seccare e decantare come se fossero trofei, a creare quella sensazione pungente che chi è entrato in uno spogliatoio conosce bene. Quell’odore ti guida ogni giorno di allenamento e di partita, è come l’odore di casa, appena lo senti, sai che va tutto bene.

Prima di cominciare a pulire, mi perdo a guardarle nei dettagli. No, non sono perfette. I lacci cominciano a mostrare i primi sfilacciamenti, i tacchetti sono usurati dal continuo sfregamento su qualsiasi tipo di superficie e sembrano quasi dei canini spuntati, la pelle laccata comincia a mostrare, vicino alla suola, qualche segno di cedimento, dovuto all’assestamento sul mio piede, ai continui shock, infine all’incessante ingiuria degli agenti atmosferici. Qua e là mostrano qualche piccola scalfitura: tacchetti altrui, se ne vedono bene i profili, come di graffi di animali feroci. I miei scarpini sono come me. Sono storto di mille dolori, le mie dita ogni mese che passa segnano nuove storture e braccia e gambe in particolar modo mostrano i segni della tenzone. Eppure io e le mie scarpe siamo là. Abbiamo superato, indenni o meno, un numero che non ho mai contato di durezze e di asperità, mi hanno visto correre e camminare e mi hanno visto bloccato, placcato, calpestato. Su di loro, però, mi sono rialzato.

Comincio a togliere via il grosso con una pezza umida, con movimenti energici a seguire le cuciture, vicoli sotto le mie dita, che indicano la forza che tiene insieme la leggerezza della tomaia, i tacchetti, sei da trequarti, in alluminio, la gomma flessibile della suola. Tolgo le incrostature della settimana e con esse le preoccupazioni, mentre ripasso mentalmente il lavoro fatto, ripasso come sono arrivato a quel momento, tento di eliminare quella sensazione di teso vuoto che si annida allo stomaco e sotto il cuore a toglierti il respiro e che l’indomani sarà il ticchettare nervoso dei tacchetti vestiti sul cemento anonimo di uno spogliatoio, umido come una tana, imbevuto di umanità sudata e nervosa di testosterone, calda di canfora. Visualizzare, chiudere gli occhi, visualizzare gli obiettivi. Come un aruspice, dietro ogni pensiero interpreto come andrà domani, cercando sempre di scacciare gli influssi negativi, mentre continua, lento e deciso, il lavoro di pulitura.

Adesso il grosso è tolto, il colore non si nasconde più dietro la patina d’erba martoriata dallo schiacciamento, né dal fango schizzato violento ad ogni calpestamento. Adesso ritorna alla luce un blu forse un po’ opaco, ma ancora abbastanza brillante, e allora penso che io e i miei scarpini condividiamo molto più di uno sport, ma la vita. Sappiamo, io e le mie scarpe, che dalle ferite non si può tornare indietro. Ogni taglio, graffio, distaccamento ci ha cambiato irreversibilmente. Il mio naso rotto come la pelle mezza scollata, le mie giunture doloranti come i tacchetti smussati. Eppure anche questo è crescere. Anche questo ci rende umani. Ogni passaggio verso un uomo nuovo è segnato da una cicatrice e ogni cicatrice è un monito, una prova.

Dentro la luce artificiale della caverna-spogliatoio, adesso, in mezzo ad altri respiri forti, comprendo perché la haka dei guerrieri Maori è stata presa dagli All Blacks e non si tratta solo di puro folklore. Lo spogliatoio è l’ultimo passo, l’ultimo passaggio. Solo passo dopo passo – A Upane Ka Upane – in bilico tra la vita e la morte, tra il coraggio e la paura – Ka Mate Ka Ora – si può guadagnare la luce, il Sole, la vittoria – Whiti te Ra -. Il terreno scricchiola dei passi tacchettati. Sono al mio posto.

Esercizio # 9 – Ritorno a casa

Il cielo di Palermo all’imbrunire si apre verso l’infinito. È come un’immensa tavolozza di gradienti che va dall’arancione incandescente e in 180° tocca ogni sfumatura fino a che le mani affusolate della notte, là verso Bagheria, non comincino piano ad accarezzare l’aria. Palermo è intrisa di ricordi.

Mi sono ritrovato imbevuto di quest’aria familiare, per quanto il primo impatto sia stato di incomprensibile caos – sono già così aduso alla pacata vita svizzera? – e dentro di essa, respirando a pieni polmoni, ho trovato una dimensione di casa. Ho atteso per potermi immergere nella notte dai profumi desiderati e fondermi per trovare il mio posto dentro l’anello di Moebius, così adesso ho l’opportunità di trovare pace, nel posto da cui tutto era partito. Ho atteso la fluttuante calma del mare e il suo odore denso per potermi sentire finalmente libero. A Palermo, mentre guardo aprirsi il golfo e una nave si allontana maestosa con le sue luci di piccola città galleggiante, comprendo la natura stessa dei mari e degli oceani: per quanto lontano si possa andare, girandosi attorno ci sarà sempre abbastanza acqua per non porsi confini. Solo dal mare, quindi, poteva nascere tutta la vita e tutte le vite possibili. Così Palermo riflette il mare e lo condensa in strutture architettoniche, in strategie urbanistiche, in rumori, essenze, suoni, colori, storie, ancora una volta vite.

Palermo ha i suoi strati che si confondono, in cui trovare confini è un’impresa per turisti e guide, mentre invece la città si lascia scorrere su un canovaccio dalle interpretazioni e sfumature infinite e ancora più raffinate. Palermo è una città dalla ricerca continua, immersa nella sua trasandatezza e da essa allo stesso tempo impreziosita, e per questo va piano scoperta e riscoperta, su tragitti che, per quanto banali, anche dopo anni possono nascondere sorprese. Qui l’umanità è immanente e odora di polveroso, putrido, dismesso, abbandonato, distrutto o si glorifica di bellezze rare, di fragranze inattese, mischiate nella discordanza cui solo i sensi esperti possono trovare un verso, là dove “verso” indica la condizione dinamica del continuo divenire, in un ciclo che va dal traffico, alle urla dei bambini, dagli strepiti, alla neomelodica che si spande come un mal di pancia dalle finestre aperte, dal jazz dello Spasimo, al martellare incessante di Y10 svuotate di tutto tranne che del motore per fare largo ad impianti stereo da concerto a San Siro. Adesso mi ritrovo compreso tra standard comprensibili: l’uomo, il palermitano, si riappropria di tutta la città, di tutti i suoi tempi e spazi, mettendo in scena spettacoli unici in luoghi fatti arene e teatri per l’occasione. Tutto è teatro a Palermo: è fatto per fotografare momenti in pose di folklore o di squallore, così come di indicibile e peculiare kitsch e ancora di inenarrabile bellezza, dove il tufo, il marmo, le maioliche, i gruppi statuari contorti svettano al di sopra di vite diroccate dentro case diroccate e mai si sa dove il prossimo spettacolo dipanerà i suoi fili o dove tornerà ad intrecciarli. Perfino la bruttezza sa essere bella a Palermo, là dove si fa faccia, e la faccia vissuto, e il vissuto storia, e la storia tutte le storie. Allora non tocca mai chiederti, in quest’enorme caos continuo e figlio di numerosi ordini, dove sono i Palermitani, ma dov’è Palermo. La risposta è: quale Palermo?

Esercizio # 8 – Twickenham: rugby, birra e… tabacco da naso

Londra è abbastanza grande perché anche un evento come la Heineken Cup possa restare solo una partita di rugby. Nell’immenso insieme di blocks identici a gruppi che squadrano le strade della capitale dell’Impero, le storie di Twickenham nell’anno dell’Olimpiade sono come le rane nello stagno. Però, che stagno.

Il Twickenham Stadium è fatto per stupire e per far riflettere. Rispetto anche al più grande dei giocatori, la grandissima struttura in metallo e cemento armato (di per sé non il massimo dell’eleganza) è imponente, preponderante e annulla – o vorrebbe farlo – ogni velleità umana di grandezza. Anche questo è il rugby e questo ricordano anche le statue di bronzo che immortalano pose plastiche attorno al grande protagonista, l’ovale, l’unica forma che conta. In ogni caso, rispetto al leggendario e fantomatico William Webb Ellis, il divino Brian O’Driscoll è solo un altro giocatore, un accolito – magari tra i più zelanti – di un culto che va al di là della consacrazione del singolo. Twickenham è oltre le storie dei singoli giocatori, è semmai il loro grande orecchio di risonanza. È quell’atmosfera surreale e frizzante che si respira tutto intorno e dentro esso. Se ami il rugby, quello è il tuo posto e poco importa che tu sia probabilmente lo spettatore che venga da più lontano, con inglesi ed irlandesi che chiedono curiosi se in Sicilia si giochi a rugby – “Iron Team RFC? Do you mean Aironi?” – in quel momento sei parte di un rito, di un “atto di amore” verso una disciplina, di una comunità che si federa intorno alla condivisione di una passione.

Si entra finalmente a Twickenham dopo una lunga salita, ascoltando idiomi diversi, con sfumature di accento ancora più diverse, ed è come affacciarsi su un grande balcone che dà sull’infinito. Il campo verde come poche volte è capitato di vedere (per quanto il Millennium Stadium sia ancora meglio da questo punto di vista), i pali bianchi imponenti, l’odore del rugby che conta, come se avesse un odore riconoscibile, che forse è quello dell’erba fresca che tra poco sarà calpestata dai protagonisti di questa giornata e un po’ è l’odore di tutta quest’umanità varia, che respira di birra, traspira del sintetico delle magliette, si accompagna con gli effluvi della carne arrosto o con quello più dolciastro degli hot dog con le loro salse. Fare amicizia tra gli spalti, allora, è normale, anche perché è facile riconoscere quattro italiani in mezzo a tanti inglesi, dato che sono gli unici che si muovono, urlano, cantano e ridono come gli altri fanno solo quando sono già molto ubriachi e ben presto si diventa il centro delle attenzioni. Tra tre ordini di gradinate è tutto uno scambio di doni che farebbe diventare matto il miglior Malinowsky, tra bicchieri di birre alla spina e passaggi di tabacco da naso che a noi, neofiti dell’arte, fa restare con facce sempre più strane. Per certi versi, la vera partita è tra gli spalti, tra tutte queste esperienze diverse che si incontrano, ridono e si confrontano insieme. Poi finalmente è il campo a parlare. Davide contro Golia? Forse, anzi sì, e lo si vede già dagli spalti, dove il blu è presenza preponderante e prepotente e il bianco si lascia relegare in un benché ampio lato. Per un tempo Davide sembrava potercela davvero fare, esprimendo un gioco che, al di là dei molti errori e forse di un’organizzazione generale meno oliata, era sicuramente più gradevole, ma i Dublinesi hanno fatto vedere cosa significa essere i campioni in carica e favoriti. Sornioni, senza mai davvero rischiare, hanno lasciato sfogare l’avversario, per poi colpirlo una prima volta, cosa che attenua il caloroso pubblico nordirlandese, e poi cerca di affondare il colpo della tranquillità, trovandolo senza troppe difficoltà prima della fine del primo tempo. Con undici punti di vantaggio, sebbene Ulster sembri di poter tenere botta, è facile immaginare che il Leinster amministrerà il secondo tempo. Senza mai davvero spingere troppo, così, la squadra campione difende, ruba, fa cambi di fronte, gioca con tranquillità e permette anche ai bianchi di infiammarsi nuovamente, per spegnere poi definitivamente ogni ardore con la quarta e la quinta meta. Recriminazioni? Delusione? Nessuna. Le parole che più frequentemente si sentono dal lato di Belfast sono – “they deserved it” – l’hanno meritata. Alla fine, come sempre, è il rugby che ha vinto ed è ancora più curioso come tra gli spalti ci si complimenti a vicenda, quasi che siano stati i tifosi stessi a giocare la partita, cosa che in un certo senso è vera. È una performance collettiva, che investe ogni singolo presente e lo trasforma in attore.

All’uscita c’è ancora il tempo per fare nuove e brevi conoscenze attorno ad un pallone che, lanciato in aria a mo’ di up & under, condensa un numero sempre maggiore di persone, fino a quando, come ai tempi dei calzoni corti, il proprietario della palla non deve andare. Lasciamo Twickenham esausti, felici, con gli occhi brillanti della nostra prima volta in uno dei grandi templi del rugby. La festa impazza e risuona anche da lontano e per molto tempo ancora. Per strada, riconoscendosi per i colori sulla faccia, ci si saluta come partigiani e fratelli, avendo fatto parte di un altro piccolo grande miracolo nell’immensa Londra.

Esercizio # 7 – The Terminal

Gli aeroporti sono una metafora della vita. Lunghe attese e strade lunghe per arrivare da un punto all’altro e l’unica cosa che davvero potrebbe contare, il viaggio, relativamente breve. Si, gli aeroporti sono una metafora di molte parti della nostra vita.

Aeroporto di Ginevra, alle 23 di un giorno qualsiasi, se non fosse il giorno dell’Ascensione – scoprendo quanto veramente si possa essere ignoranti in materia religiosa sempre di più; ma del resto è di famiglia, se mio padre era chiamato “il Turco” – e dunque si respiri l’aria di un dismesso, enorme deserto, quando altrove la primavera fa la gente gioiosa, in maniera pacatamente svizzera. Vedere un aeroporto deserto fa rendere conto delle proporzioni mastodontiche delle architetture, dell’insieme standard di banchi, nastri, barriere, scale mobili, carrelli. Perfino le livree delle compagnie coi loro desk colorati fanno parte di una struttura che potrebbe stare in Svizzera come al Cairo o a Singapore, miracoli, se così si può dire, della globalizzazione. Ancora, in un aeroporto deserto c’è il senso vero di tutte queste costruzioni: l’insieme di materiali, dal ferro, al calcestruzzo, alle mattonelle tutte uguali che sembrano posate alla rinfusa, a meglio guardare, con fughe mai uguali l’una all’altra, mai davvero simmetriche, è fatto per colpire l’occhio di un passeggero con i lampi della superficie, i giochi di luce, di insegne luminose, di boutique eleganti nel mezzo di asettiche lamiere bianche anni ’80 e tubi blu a correre tutto attorno come in una fabbrica fordista. Si, ancora più chiaro spunta, quando tutte le luci del capitalismo last-minute si assopiscono sulla notte ginevrina, il lato fordista – o post-fordita o toyotista, insomma, da catena di montaggio – del trasporto per via aerea: numeri, biglietti, carte d’identità e poi tasse, multe, sovraprezzi, a giocare sulla frustrazione dell’ignoranza del passeggero medio. Numeri e codici: le facce sono fugaci istanti di smarrimento al desk d’informazioni.

Nel silenzio surreale della grande struttura aeroportuale, ritrovo ancora altri pezzi del nostro tempo. Quando le luci si spengono e la grande folla è passata altrove, comincia un mondo di diritto sospeso, di assenze, di lunghe attese. I passeggeri ad attendere i voli della mattina dopo non sono molti insieme a me, ma tanto basta per mettere insieme tutte le vite che possono incontrarsi in un aeroporto. Seduti scomodi su sedili fatti per rimanere accettabili ricettacoli per non più di una mezz’ora, c’è tutta un’umanità che prende parte ad un teatro che si snoda uguale da secoli, cambiando l’ordine degli attori, in questo caso. Uno studente cinese dal vestiario occidentale nasconde male l’irrequietezza per una situazione che probabilmente non collima con il suo vissuto. Cosa potrebbe ricordargli? Lontano dal voler trovare veramente una risposta, mi limito ad osservare il suo incessante avanti e indietro, forse intento a tradurre tutti gli avvisi dal francese utilitarista ad una lingua più congeniale (con la stessa aria sperduta e irrequieta lo troverò alle sei del mattino sul mio stesso volo, cercando di persuadersi che sì, al gate B 42 partiva il volo per Londra Gatwick). Di fronte, stanchi ma felici, due coppie di ragazzi giapponesi o coreani cercano di addormentarsi in plastiche e scomode posizioni che li tengano comunque insieme, testa contro spalla, a rendere speciale un istante anonimo, in un angolo anonimo di un aeroporto altrettanto anonimo. Un indiano russa della grossa – mi chiedo se anch’io e il mio naso rotto diamo questi spettacoli anche in queste posizioni – poi, come preso dall’impeto di uno zelo che sa di alienazione – accende il computer e comincia a lavorare per una buona mezz’ora, poi ancora spegne e ricomincia un concerto che risuonerà per tutta la notte. Altri ancora studiano o lavorano, per richiamare un sonno che, a causa dell’inenarrabile dolore di terga, è solo un’impastata sensazione tra un controllo di polizia e un mal di schiena. Mi rendo conto che questi spaccati di vita, che resistono alla noia, prima ancora che al dolore, sono riassunti importanti di esperienze pregresse. Il mio lungo viaggio da Ginevra a Londra quindi a Palermo sarà l’ultima parte di un nuovo inizio, che è ancora la prima parte di una lunga fine che terminerà solo il 22 giugno – ironia della sorte, il mio compleanno – con l’ultimo esame in terra svizzera.

Accanto a questi scarti temporali, vedo o mi sembra di assistere all’esatto contrario: la lunga notte di una coppia che non funziona più. Né litigi, né urla, solo sguardi carichi di vuoto e indifferenza, forse disprezzo, per aver lasciato che tutto andasse così e poi il pianto rotto e lamentoso di lei, seguito da quello del paffuto neonato in preda alle coliche e forse, anche lui, a risentire l’atmosfera di triste resa che circonda i genitori. La vita è un ciclo di amore-odio, forse, come qualche presocratico direbbe.

E così, lentamente, tra i dolori di una schiena storta e di qualche esistenza da riscrivere, si appresta l’alba sulla Ginevra aeroportuale, salutata dai tacchi delle hostess che sbattono duri e di buona lena sul pavimento di irregolare simmetria. Un altro giorno e un altro inganno cominciano.

Esercizio #6 – Auvernier ovvero Guardando verso casa

Il treno sferraglia veloce da Neuchâtel in direzione di Gorgier-Saint Aubin, con la stessa solita precisione di sempre. Un minuto di ritardo è accettabile. Due sono già troppi.

Invece di fare il solito tragitto rotolando stanco verso casa, decido di perdermi altrove. Così, quando il treno inchioda tutta la sua ferraglia ad Auvernier, apro le porte, contento di cominciare un nuovo percorso. L’aria pungente della pioggia che va via rende perlacei tutti i colori di una domenica sera di pigra primavera, quando a casa mia già s’appresta l’oscurità e qui, in questo luogo Altro-da-me, ancora persiste un sole smerigliato. Mi guardo attorno e rimetto insieme una presenza umana complessa, stratificata, eppure silenziosa, fatta di pietre antiche, sbozzate dal tempo e dallo scalpello, a formare reticoli bianchi tra i vigneti – vicoli storti e rassicuranti entro i quali ritrovare il senso pieno di se stessi – altre ancora a mettere insieme le case, presenze dalle forme precise, nascoste e al contempo impreziosite dal gusto per l’integrazione della natura, quasi a renderle ciò che le è stato strappato a forza dal progresso, dalla torsione delle lamiere dei guard-rail e dei pali e dell’acciaio delle rotaie, dai fili elettrici che corrono a formare intricate e precise matasse, segni di un’efficienza che è orgoglio nazionale. Lontano ancora, tra Bôle e Colombier, la torre bianca del centro di trattamento dei rifiuti, da cui un fumo altrettanto bianco e presto etereo sembra intonare una velenosa sinfonia di morte. Svetta là dove tutto si nasconde alla luce, protetto dai primi contrafforti del Jura che proteggono adesso il sole da occhi indiscreti e calano l’ombra sulla vallata che già comincia a dormire.

Auvernier dunque si presenta come una commistione di due filosofie: la Svizzera confederata delle rotaie e quella tutta cantonale di una misurata, esteticamente ricercata joie de vivre, in cui il piacere di un vino torbido non può che essere gustato entro le rassicuranti mura di una casa dai contorni decisi e definiti, dal gusto che racconta il Settecento ruggente di questa zona. Auvernier è anche, se non soprattutto, il vero luogo delle vigne di Neuchâtel. A perdita d’occhio rigano perfettamente intere colline, le distanze impeccabilmente uguali, le piante ancora in pieno sviluppo a seguire le strade di una crescita imbrigliata secondo la mano sapiente di secoli di tradizione, che da sempre ha ridisegnato i fianchi gentili tutto attorno al lago. E quando il vento soffia freddo ad intirizzire la carne, si indovina il lavoro importante degli agenti atmosferici a distribuire, con la caotica e stretta consequenzialità della natura, possibilità di vita lungo le vie scavate dalle acque, mosse e corrugate dalla tettonica delle placche, ritornate alla luce dopo la glaciazione. L’odore dolce del polline, per questo, inebria l’aria. Eppure, nonostante tra le ordinatissime vigne che sembrano a tratti gettarsi a precipizio sul mare – grandi miracoli degli effetti ottici – sembri regnare la pace dei germogli che vogliono il loro tempo per crescere, il tutto è disturbato dalla presenza nervosa della strada a scorrimento veloce: le due Svizzere della diversa efficienza collidono e confliggono l’una a contatto con l’altra. Lì dove vedo una bandiera indugio ancora a pensare. Ecco un’immagine forse così tanto emblematica da sembrare presa da un libro di aforismi: il vigneto, le acque calme di un lago appena turbato dal vento che tira di taglio da est ad ovest, e, verso il blu, le Alpi, a tratti fantasmi bianchi, a tratti bonarie vegliarde della terra di Guglielmo Tell. Più ad ovest ancora, seguendo la linea seghettata della catena, ricerco casa e il profilo inconfondibile del Monte Bianco. Ovunque mi trovi, quella è la mia guida: oltre la sua cresta c’è qualcosa che mi appartiene, qualcosa che più di tutto anelo e desidero. Mi chiedo cosa sia casa e credo di poter rispondere che “casa” è più di ogni altra cosa una sensazione. Quando tornerò a casa, saranno degli occhi sperati e sognati ad accogliermi. Sarà casa mia raccolta tra due braccia.

Mi ritrovo consolato dall’idea che il tempo scorra inesorabile, per una volta, sui destini dell’umanità, mentre cicli e linee si avvicendano e si confondono. Cerco infine un’uscita dalla doppia Svizzera, allontanandomi dalla strada, verso una scala dove si abbarbicano e trionfano rampicanti e piccoli alberi. Sono il sussurro che spegne sempre di più la frenesia della ferita profonda delle strade asfaltate e fa ritornare indietro nel tempo, immaginando questo luogo, fatto di labirinti di pietre bianche, come doveva essere quando la vita girava intorno alla pesca e all’uva, curiosa evangelica accoppiata, per un cantone che, tra l’altro, è uno tra quelli laici. Tra le pietre si annidano storie antiche e sempre rinnovate, di muschi bruni e verdi, che da sempre tracciano segni sulla superficie inanimata. Quello è il segno che la vita può fiorire dappertutto e in qualunque condizione e sa riappropriarsi perfino di ciò che l’uomo rimette in disordine. Alla fine, però, come si può pensare l’ordine naturale al di fuori dell’uomo, persino nel suo impeto più distruttore, dissacratore ed iconoclasta?

Ecco dunque che anche la spinta verso l’alto dei puntuti tetti delle chiese e dei palazzi borghesi e signorili prende un altro significato: atto turbativo di parole, atto necessario, poi, quando la tempesta è passata, langue di un testo che si rinnova giorno dopo giorno, era dopo era.

Tra i vicoli di Auvernier c’è tutta l’intimità delle domande dell’uomo, raccontato anche dal frastagliato camminare sul selciato a forme geometriche del centro della cittadina. Ci arrivo che ormai il sole è calato e tutto sembra dormire, salvo qualche sparuta finestra dove si può indovinare un’esistenza. Mi chiedo cosa mettano in scena quelle vite e mi sento come una falena attratta dall’inquietante bellezza di uno sfavillio giallo, nell’atmosfera densa e umida di una sera domenicale, quando so che tutte queste parole scrivono per altri occhi, cui mi aggrappo come ad una nenia consolatoria, la calma vulcanica di Sophrosyne.

Esercizio #5 – Moebius

Inserite nel loro contesto, le cose non hanno né inizio né fine. Semplicemente sono.

La pioggia impalpabile ma continua di una notte senza vento ha appiattito nuovamente gli odori della primavera. Essi stanno assopiti tra le gocce che non evaporano al suolo, sulle foglie verdi di vita, tra i rami gonfi di linfa, e per questo il tribolato ed incessante via vai d’insetti è cessato, aspettando tempi migliori. A terra c’è il segno del travaglio: stremato, spento, vinto dalla sorpresa della pioggia, un bombo si lascia cullare dalle ultime sensazioni, prima che il fango o una scarpa pesante lo portino per sempre all’oblio. Stirato sulla terra nuda del passaggio di troppi uomini da quel breve tratto, è un soldato caduto. La sua causa è antica, la sua corsa folle, affinché tutto si protragga nel suo ordine, affinché la sua breve vita di innumerevoli battiti d’ali non sia inutile. Presto altra pioggia cadrà a lavarlo, affogarlo, ricoprirlo di fango, ridurlo ad irriconscibile nutrimento. No, non è stata inutile la sua caduta stanca.

Tutto attorno stanno i soffioni, spogli adesso, come amanti sfatti, bruciati da una passione vissuta fino in fondo, le teste spennacchiate, intirizzite dalle gocce che non scivolano via, ma si rapprendono agli ultimi acheni rimasti ancora ad attendere il vento buono, la giusta occasione per volare via. Rivedo in questo forse tante storie, forse una, che è tutta comune all’umanità. Rivedo donne al balcone, in attesa dell’uomo giusto, poi alla finestra, in attesa di un uomo, poi sedute ad una poltrona, in attesa di una speranza. La vita è volata altrove, sembrano dire impotenti, quando altri sono andati via, presi dal rabbioso ed imprevidibile vento di primavera, che porta il ruggito sordo delle valli di Svizzera, il fruscio tra gli aghi dei pini secolari, il suono crepitante e vuoto delle foglie dei faggi e delle quercie, costrette a terra dal tempo che passa, infine porta pollini, porta nuove, infinite possibiltà, ma entro un canovaccio ben preciso. Eccolo, il nastro di Moebius. Non importa dove o quando cadrà il seme, ma che sarà caduto, prima o poi, e che fiorisca nell’insieme, perché uno è importante per infinito, perché infiniti uno sono un infinito. Mi lascio agire dal vento come un soffione, il mio sguardo si muove su luoghi conosciuti, sorvolandoli, indugiando là dove il vento si riposa, riprendendo veloce la marcia verso n’importe où con lo slancio di una caduta infinita nel vuoto. Sono nello stesso punto, ma sono ovunque si snodi una vita. Lascio cadere l’occhio sui miei vicini in attesa dello stesso autobus: anche loro sono parte di questa storia e di tutte le storie. La faccia impaurita dell’ordinato vietnamita, protetto dal suo zaino nero come la tartaruga dal suo guscio, mi riporta all’orecchio la mia stessa domanda: come sono arrivato qui?

Riprendo allora il filo di imprevedibili deviazioni, di strade maestre e vie traverse, per scoprire come il vento mi abbia agito ed infine come abbia corso soltanto lungo il reticolo senza fine del grande trucco di Moebius. Partire. Muoversi per non spostarsi mai, sportarsi per non sostare, sostare per non essere mai davvero partiti, infine fiorire. Sorrido, sono una cosa del mondo. Ti aspetto a casa.

Esercizio #4 – Promenade

Ho sospeso tutte le parole, lasciandole rimbombare nella testa, svuotandola di preconcetti, di suoni conosciuti, abituando l’occhio ai colori, l’orecchio ai suoni, il corpo all’insieme delle sensazioni.

Mi proietto su racconti silenziosi fuori dal Museo di Etnografia. Ritrovo pietre ed alberi e mi fermo ad osservare ogni angolo con una visione rinnovata. La luce grigio-blu dietro nuvole cariche di pioggia rilassa l’animo e mi rendo finalmente conto per cosa è stata pensata Neuchâtel. Le pietre, i colori risaltano con gentilezza ed eleganza sotto la minaccia di pioggia e le forme diventano più nette e nitide, sicure e rassicuranti. Come un gatto mi allungo su una lapide, ne cerco ogni punto di vista, apprezzando la solidità del Secolo dei Lumi al suo taglio ancora odoroso di resine, muschi e piccoli frutti di alberi che nella mia testa non hanno un nome. Con l’occhio scorro la superficie, racconta la sua storia di colpi di scalpello precisi, di vite, tutte quelle delle ere geologiche, per un attimo condensate nella pietra per un attimo che è infinito e infine impalpabile. Sono agito dal mio occhio, rappreso nello sguardo impreciso di una fotocamera, agito dai filtri sulla luce.

Ricerco ogni finestra che mi porti nuovi scorci e un odore fresco ed umido si fa presso le narici. Pini di diverse età concedono la loro essenza tra gli aghi e le cortecce scagliose. Mi appoggio ad ogni anfratto, per scoprire cosa ancora possa nascondere, infine trovo l’apertura verso un grande infinito, come tutti gli infiniti densi di suoni in potenza, che tutti insieme scivolano in un silenzio di gomme e di asfalto levigato. Sono affacciato sul tutto, io stesso tutto con esso, e l’astinenza dalla parola lascia spazio pieno al caos di agire.

Neuchatel

Nella discesa verso il lago, ancora entro le mura precise del Museo, mi fermo su un pino secolare, grande, enorme, possente. Sulla sua corteccia agita dal tempo la resina si rapprende come le lacrime di un grande elefante dalla lunga memoria e più in alto i rami si spandono dovunque in un reticolo di strategie di sopravvivenza e crescita, rami nodosi verso rami più piccoli, verso alcuni ancora più piccoli, fino al minuscolo degli aghi, loro i veri ricettori, la vera fonte di energia del grande gigante. Il pino dice di un tempo razionale, affacciato sul lago, cresciuto forte e rigoglioso grazie a mani esperte, il più maestoso tra i suoi fratelli, la guida di immobili guardiani della città. Loro, i pini, sorvegliano sulla tranquillità del borgo, scrutano il lago e la montagna in un giro che tutto cattura con le fronde e si difende con durezza del legno vivo di linfa. Tra i loro anfratti crescono altri mondi, dimenticati, piccoli ed importanti, case di ragni e formiche, mondi dove il più forte lo è per numero o per astuzia, la fame e la sopravvivenza affinano le tecniche.

Adesso comincio la mia lunga discesa all’acqua, una discesa dove incontro fontane e il rumoroso corso del Seyon che si getta potente dopo il suo tragitto sotterraneo. Dalle viscere della terra esce e protesta la sua presenza: non ingabbi l’uomo ciò che la natura ha disposto essere sotto il cielo. Ma Neuchâtel è il trionfo della forma e non si piega alle regole, ma lascia che le scorrano addosso, le crescano sui muri, diventino foglie e rami, si integrino, così che anche le cicatrici dell’agire umano siano esse stesse l’immagine del suo trionfo. Prima dell’uscita, mi saluta una fontana, da cui un leone barbuto di muschi umidi ruggisce acqua su delle conchiglie. Ripenso all’essenza della conoscenza. Tutto scorre e i singoli pezzi, per quanto l’acqua ci possa tutta sembrare uguale, non possiamo che prenderli entro le nostre mani, come se volessimo bere da una fonte. Le mettiamo allora serrate a conchiglia, ma lentamente, per quanto tentiamo, buona parte dell’acqua scivola via. La rincorsa dell’uomo alla conoscenza è forse una bevuta frustrata dall’impiego di mezzi inadatti e se fermiamo lo scorrere allora nessun obiettivo è raggiunto, perché l’acqua stagnante non è buona a bere. Così la Kabala che intima a non spostare i pezzi che Dio nel suo soffio ha disposto per come sono adesso. Bloccare ciò che si muove, ipostatizzarlo è ucciderlo ed uccidere se stessi, tramite l’avvelenamento, la corruzione delle molecole, il deterioramento, la morte e poi mille nuove vite nutrite dalla morte. Non è la fine. La fine non esiste.

Preso da questo pensiero attraverso la linea di confine immaginaria che divide il centro, marcato dalle punte crociate della Collégiale, a Serrières, l’altra parte della città, produttiva, metà nuova e metà antica di villette dove inserti neoclassici si indovinano in mezzo alle vigne e agli alberi ornamentali, difesa da occhi indiscreti. Infine mi ritrovo alla grande bocca del Seyon, là dove le sue acque trovano pace nel lago, si imputridiscono alla piccola foce in schiuma mista alle penne bianche dei cigni, intenti a cercare nutrimento tra le alghe brune. L’odore marcio e metallico dell’acqua stagna si fa presso nelle narici, dolciastro di putrefazione. La morte e la vita danzano su un sottile filo, fino a confondersi.

Seyon

Mi riappacifico con la mia natura, legata al mare, attraverso queste sponde placide e silenziose, dove la lotta è spietata ed è più visibile quanto tutti gli esseri siano inconsciamente attaccati alla loro esistenza. Mi immergo tra le zanzare, metà pasto e metà oggetto sconosciuto e pauroso, e ripenso a queste rive, malsane forse d’estate, quando la canicola rende inerti e perfino scacciare un fastidioso insetto è un peso. Le acque ferme, senza il minimo sciabordare, solo una lenta nenia sul pelo dell’acqua, quando infine ritrovo rumori conosciuti e riposo i piedi tra il crepitio delle pietre levigate dall’azione inesorabile del tempo. Mi faccio presso alla riva con l’anima ferma ad un pensiero. Non sto raccontando solo io, ma dentro cospiro di nuove visioni non mie, ma adottate con leggerezza ed esse stesse leggere. Sul lago finalmente ritrovo una forma al mio essere. Non posso fuggire dall’acqua. La mia natura è liquida: agisce e si fa agire dalle cose. Osservare oggi è stato diventare acqua e dentro ogni goccia che sta tra i flutti quieti delle sponde lacustri e le forme arcuate dei cumuli sopra la mia testa mi sono ritrovato, ancora più tremante e tesa fibra dell’universo.

Esercizio #3 – Zeitgeist

Zoppo di qualche guaio sportivo di troppo, scendo una stradina persa tra le vigne e le case con i tetti a spiovente, talvolta interrotti da cambiamenti di angolo, a fare uno stile tutto particolare, indubbiamente svizzero. L’odore di acacia mi inebria le narici.

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Un sole di una giornata calda (per gli standard di queste latitudini) di maggio mette in risalto le sfumature di verde di questi posti. Vicino, oltre il muro di pietre a secco che sembra resistere da sempre con i suoi muschi incrostati e asciutti, i germogli verde chiaro delle vigne, ancora niente più che delle promesse, a perdita d’occhio salire e scendere tra le colline del Non-filtré e dell’Oeil-de-Perdrix, come una testa in cui ancora vedere i segni di un pettine passato in maniera troppo rude. Un leggero vento tra le foglie è l’unico rumore a Bôle e nella campagna limitrofa a mezzogiorno di un venerdì che sembra di festa. Qui e lì si affrettano i vignaiuoli per allestire le ultime cose per le “Caves Ouvertes”, quando le cantine più importanti della regione aprono i battenti per fare assaggiare e conosceri i propri prodotti. Un uomo prossimo a superare la mezza età, con movimenti lenti e gravi, bardato del suo grembiule blu e di un bonnet simile alla nostra coppola, si dà da fare entrando ed uscendo dalla sua cantine, poco più grande di un grosso garage, che un cartello in legno intarsiato segnala essere quello che è. Tutto ha l’aria bonaria e placida.

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Più lontano, lì dove il declivio diventa più gentile e quasi tende al piatto, si raggruppano alberi di faggio, quercia, tiglio, olmo, acero, pino ed abete in brevi e fitte macchie, là dove più sopra invece regnano a perdite d’occhio, come attorno alla gobba del Creux-du-Van, maestoso gigante dall’aspetto terribile. Ancora brilla l’erba fresca e vigorosa di una luce tanto attesa e che sembrava non dovesse più attraversare questi posti. Per me, abituato ad un sole quasi beffardo, talvolta duro, significa finalmente capire perché gli Inglesi chiamano il tentativo d’abbronzarsi “sunbathing”. La necessità di riempirsi di una luce calda, rilassante e che mette di buon umore, dopo un inverno lungo ed uggioso che ancora fatica a togliere definitivamente le tende, è fortissima e finalmente fa aprire gli occhi, la testa e le narici ad una realtà che rinasce. Adesso la Svizzera mi sembra qualcosa di un po’ meno estraneo e ho tempo per poterla vedere e tradurre a mia maniera.

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Mi perdo tra i riverberi della luce tra gli alberi e penso ai risultati incredibili del caos. In mezzo al caos delle foglie, ritrovo un filo conduttore senza parole ed osservo, rapito come dal piacevole richiamo di un entropico rumore di fondo. Lentamente porto alla mente altre immagini, altri colori. Cosa riesco ancora a vedere attraverso? La grande visione d’insieme del mondo, fatta di innumerevoli vicoli ciechi, di strade senza fine, di lunghe transumanze verso il niente. Mi fermo all’ombra di un faggio solitario al bordo della strada, lì dov’è stata messa una panchina, e sullo spaccato di un raggio sfuggito alla grande e intensamente verde superficie delle sue foglie, scorgo il mio pensiero stesso trasformato in movimento naturale: come tanti fiocchi di neve o di cotone, gli acheni dei soffioni volano, seguendo le correnti ventose. Un piccolo esercito bianco e silenzioso, che contribuisce ad un’atmosfera sognante, eppure macabra ed inquietante. Di questo grande gruppo, molti saranno coloro che non arriveranno a germogliare, fermati dalla casualità ed in parte dal destino delle correnti, cosa che adesso mi sembra un po’ come parlare di frattali.

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Torno a casa e oltre la finestra un pesco e un albicocco sono in fiore. Il vento è un po’ più forte e le infiorescenze si spampinano violentemente. Adesso sono ridondanti dei loro sforzi, ma presto la maggior parte di essi non sarà che marcio nutrimento a terra, prima bianco o rosa, poi infine nero e morto. Solo pochi resisteranno per dar vita a frutti succosi, lo scopo dell’intera vita di un albero. Guardo meglio, nella confusione, mi dico che la bellezza non è democratica, ma esclude i deboli, i non adatti, li sfrutta perché essa stessa possa risplendere ancora di più. Attratto dal ciclo mortale della natura, ritorno con la testa a casa. Palermo in questo momento odora di gelsomino. Con una voce io non me ne sono mai davvero andato.

Esercizio #2 – Traduzioni

Arrivando qui, pensavo fosse automatico guardare e poter osservare.

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La differenza può non essere a prima vista evidente, ma a mio avviso esiste. Guardare è l’azione primigenia e primaria: attestare con il cervello lo stimolo dell’occhio; osservare è l’azione successiva: volgere lo sguardo. Potrebbe sembrare ridicola quest’affermazione, ma in realtà questa frase ha una sua dignità epistemologica, semantica, simbolica. “Volgere lo sguardo”, cominciamo dal secondo termine. Occhio e sguardo non sono esattamente la stessa cosa, e questo mi sembra assodato. Mentre l’occhio è l’oggetto, già caricato dei suoi segni e dei suoi simboli indubbiamente, lo sguardo è l’uso dell’oggetto in maniera ben determinata. Paradossalmente la differenza è che l’occhio tutto cattura come un obiettivo, aperto ad ogni angolo; lo sguardo, al contrario, esclude particolari, chiude l’angolo, si concentra su una cosa sola o su una scena e non vede tutto. L’occhio dello sguardo è quindi “pigro” (nel frattempo vi vado spiegando un po’ di cose), nel senso che abbiamo qui sopra detto. Lo sguardo lavora come farebbe un pigro, facendo solo le cose per cui ha interesse. Tornando a noi dunque, lo sguardo è il momento in cui si prende lo strumento “in mano” e si comincia a riflettere su come può essere utilizzato. Ma non serve solo lo sguardo. L’azione del volgerlo implica che si abbia la coscienza sufficiente per farne un uso quanto meno consapevole. Eppure, sebbene il solo volgere lo sguardo sia un’azione simbolica importante, per il nostro obiettivo non è sufficiente. Lo sguardo può arrivare ad osservare le cose, a creare una gerarchia simbolica e segnica che abbia un senso accettabile (“quella è una casa”), ma questo non vuol dire che riesca a tradurre e contestualizzare il fatto che “quella è una casa bella”. A questo punto subentra l’atto del vedere. Visualizzare, attestare un’esistenza e un significato di significati (un ipersignificato?) a ciò che l’occhio ha potuto osservare è vedere. Vedere è tradurre e attestare e questo è il processo senza mettere, a mio modesto avviso, in ballo senza mettere in mezzo per il momento altri concetti, come bellezza, ad esempio. Quante informazioni si perdano lungo questo processo velocissimo, ma importante e non automatico, non lo sapremo davvero mai, però mi chiedo: ci servono più informazioni per il nostro scopo? Tradurre è corrompere, modellare secondo schemi, eliminare, fare un’operazione discreta, scremare, setacciare, tagliare. Non è il complesso, è il dettaglio che caratterizza e preoccupa il genere umano da sempre.

Ora, tradurre non è operazione facile, come ho tentato di spiegare, e viene condotta secondo certi schemi mentali, cosa che può permettere di non riuscire a comprendere i dati, a non riuscire ad accedere al lato allegorico di un “testo” sensoriale. Eccomi allora calato in una realtà e alle prese con i macchinosi trucchi della mente. Passato lo stupore per un mondo nuovo, ho tentando più volte di perdermi a Neuchâtel, guardando al di là del lago, cercando immagini tra le vie,  tra gli alberi che costeggiano la città e quasi la inghiottono gentilmente, inscritte nelle pietre ben tagliate a fare i palazzi. La risposta è stata spesso frustrante, probabilmente anche a causa di una serie di lacune e di predisposizioni d’animo troppo aggressive da bestia braccata. In ogni caso mi chiedevo dove davvero fosse Neuchâtel, cosa mi mancasse per vedere le peculiarità. In parte posso dire che mi è mancato il tempo – 8 mesi sono davvero pochi – ma dall’altra parte qualcosa, nei miei schemi non entrava per come doveva.

Della città ti colpisce il calpestio dei passi nitido, intervallato dallo scivolare dei filobus, con il loro cicalìo elettrico, delle macchine mai nervose, la portata del vento, che però non ulula e non sbatte tra le case abituate, tra le vie costruite per non creare mulinelli, ma assecondare la potenza del freddo delle Alpi e del Jura. Placida, Neuchâtel si sveglia e si assopisce con assoluta discrezione, solo talvolta disturbata dal ruggire dei treni merci di notte. La città dorme di luci basse, molti buii che altrove farebbero tremare il passante, la città conserva i suoi misteri dietro uno sguardo di Sfinge, dietro le numerosi effigi sincretiche di un illuminismo framassone, di cui Neuchâtel s’è a pieno bagnata. L’Età dei Lumi ha lasciato con sé però solo le ombre, i chiaroscuri, le immagini dietro forme appena abbozzate, il gran numero di fontane che sono i punti di riferimento e ristoro di chi cammina a piedi, fino a Cadolles, fino a Pierre-à-Bot, dove ancora minori sono le luci e si domina il gioco di abbozzi rilucenti che suggerisce i villaggi dell’altra riva e il lento, silenzioso scorrere di una città dormiente di una Svizzera di confine, un’isola in un continente.

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Si, la Svizzera è un’isola. I suoi confini sono netti, chiari, sebbene corrano lungo le matrici di diversi retaggi, sebbene non siano segnati dall’orizzonte del mare. Oltre quelle montagne, la Francia sembra un altro pianeta, lontano, eppure allo stesso tempo tanto influente. I frontalieri, come al confine con l’Italia, creano lo scatto di nazionalismo della barriera. Oltre quelle montagne c’è un altro mondo, oltre quelle montagne c’è una vita crudele, oltre la linea ci sono i Fransquillons, gente di cui non fidarsi, ladri, pronti sempre a far sciopero e cagnara. La Svizzera è calma, all’esterno, e tale deve restare. La Svizzera è forma e la forma è già metà della sostanza. La Svizzera lavora, l’Europa protesta. L’atmosfera è per questo assolutamente placida, ma nasconde dietro mille esistenze complesse e rumorose.

Ancora non vedo l’insieme di tutte queste anime. Ho visto solo la facciata di questo grande palazzo e la sua apparenza stordisce e le ragioni sembrano essere contorte, talmente complesse da ritornare in forma di semplici, spiazzanti spiegazioni. “C’est la Suisse, mon ami”. C’est la Suisse non può bastarmi.

Esercizio #1 – raccontare l’altrove

Partiamo da un presupposto: io non racconto i posti, racconto le sensazioni che i posti mi suggeriscono.

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Oggi, 01/05/2012, ho compiuto 8 mesi di permanenza in Svizzera Romanda, cantone di Neuchâtel, città di Neuchâtel, ma non solo. Cosa mi aspettassi dalla Svizzera e da un anno di studio in Svizzera? Sinceramente non lo so. Forse mi aspettavo soltanto di essere “altrove” e di potermi stupire. “Altrove” è uno stato d’animo. “Altrove” è esotismo, ma soprattutto è, in questo caso, un curioso esilio. Quando la valigia si è chiusa e ho messo in ghiaccio, o tentato di farlo, un mondo di cui, in quello specifico momento, sentivo solo una ferita sanguinante e profonda, sapevo che tutto quello che avrei potuto aspettarmi non sarebbe bastato.

Era il 31 agosto 2011. Il giorno prima, affogato nell’alcol, affumicato dal sapore agrodolce della Magione di Palermo, salutavo tutto ciò che potevo salutare e chiudevo una grande valigia. Non ricordo davvero di aver dormito, un po’ perché accampato a casa di un buon amico, un po’ perché preso dal terribile e distraente fascino dell’incognito. Le 6:00 e il loro color rosa mi avevano svegliato sul mio ultimo, vero giorno (per un po’ di tempo, sia chiaro, ma come se fosse davvero l’ultimo giorno di un certo me stesso) a Palermo. La salsedine mi invadeva le narici, mentre ignare di ogni mio pensiero migliaia di macchine scivolavano sull’asfalto liscio di un caldo aggressivo e odoroso di caffè, di polvere, della trasandatezza che Palermo sa incarnare in maniera maestosa, fino ad essere artisticamente trasandata. La R4 correva e vibrava fino all’aeroporto e sapevo che non mi sarebbero bastate tutte le parole che conoscevo per esprimere la miriade di sensazioni contrastanti che avevo in mente.

Me ne andavo via e lo facevo perché stavolta mi ero arreso a me stesso e alla sua stanchezza. Scritta su quei biglietti c’era tutta la speranza che potevo metterci, senza mettere in conto quanto ingannevole possa essere la speranza. Palermo – Roma – Basilea. Perdersi, quindi, che voleva anche dire stupirsi di ogni cosa. La Svizzera perfetta, impeccabile, multilingue e comunque granitica mi affascinava e mi impauriva ad un tempo, con la sua organizzazione talmente differente dalla nostra, con la paura di passare per il solito straniero con i valigioni, venuto con tutti i suoi sogni, ma soprattutto con la sua fame. Io sono anche quello.

Potevo sentirlo il peso, l’eco delle generazioni venute a cercare fortuna, terrorizzate dalla grande stazione ferroviaria di Basilea, dalla formalità e dalla necessità di prendersi le proprie responsabilità fin dal primo momento, con il rischio di essere fin da subito scoperti nella propria incompetenza. Credo che il nostro senso di inferiorità come Italiani sia iscritto nei nostri geni: siamo terrorizzati dall’andar via e dal dover vivere in un Paese differente e soprattutto dal dover confermare gli stereotipi che anni ed anni di “generazioni senza nome” hanno tramandato. Non potevo che essere il figlio di tutte quelle storie, attanagliato dalla paura di perdermi ancora più a fondo, là dove già non esistevo.

Dal finestrino del mio primo treno svizzero mi colpì il verde, come forse non ne avevo mai visto in Sicilia, quanto meno non così omogeneo, lì dove da noi regna il giallo delle ristoppie, il bruno delle foglie morte di calura dei boschi, il rossastro della terra che ci ha cresciuti, l’odore di una selvatichezza difficile a togliere. Per converso non riuscivo a trovare gli odori di questo nuovo posto. Da allora è l’assoluta incapacità di trovare delle sensazioni olfattive proprie di questi posti che mi accompagna, come se la mia comprensione fosse ogni volta zoppa o dimezzata. Da quel finestrino guardavo una natura mastodontica, di massicci, di monti intervallati da valli placide, con piccoli villaggi di case basse. La Svizzera sembra sempre confermare i suoi stereotipi.

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Acque limpide accompagnavano il mio ingresso a Neuchâtel. Il lago, in parte nascosto dalla foschia dell’evaporazione, mi dava il benvenuto dalla parte alta della città. I miei occhi si aprivano a guardare la piccola città che aveva visto Kristof, Dürrenmatt, Rousseau (tutti nascosti da un esilio volontario, curioso caso) e si stupivano della calma assoluta, dei suoi monumenti in pietra gialla d’Hauterive, una delle specialità della regione e ancora immaginavano i segreti di quella che viene definita una delle capitali della Massoneria. Neuchâtel è ancora settecentesca nel respiro, l’aria fresca soffia dal lago sulla città che si estende verso l’alto, costruita tutta in salita. Neuchâtel è pietrosa dei palazzi dalla facciate stuccate, dove ancora si possono immaginare dame dagli sguardi pudichi osservarti dalla finestra, e dai cortili grigi e silenziosi lastricati a grandi pietre, è pietrosa del castello stuccato di bianco che domina la città con le sue torri come estensioni e moniti di un potere che forse davvero non c’è mai stato, ma si è dimostrato lontano, un lembo di terra periferico, del resto, rispetto ai grandi giochi internazionali, una terra assolutamente di frontiera tra mondi differenti, quando i rifugiati francesi scappavano nel Jura per trovare fortuna in una terra che prometteva: orologi, cioccolato, assenzio, artigianato della pietra, l’essenza della Svizzera nell’ultimo cantone che ne è entrato a far parte (se non si conta la divisione del canton Jura e quella tra Basilea città e Basilea campagna del secolo scorso). Neuchâtel è un reticolo di vicoli, dove trovare inaspettatamente degli scorci di natura o mirabile impresa umana. Impresa umana, non umanità, quella sembra essere esclusa dall’equazione nelle città svizzere. “Suisse phantôme”, Svizzera fantasma, ho sempre pensato. La gente sembra nascondersi, perfino quando è per strada manca una vera riappropriazione dei posti, o quanto meno nei termini che noi intendiamo. Stretti nelle case, immersi nei loro bicchieri dentro i locali, stanchi nei loro letti di giornate lavorative tutte uguali, gli Svizzeri si nascondono ai non-Svizzeri, tanto che davvero è impossibile sapere se esistano dei veri Svizzeri.

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Svizzera fantasma, Suisse phantôme, ma anche Suisse phantasmée, Svizzera sognata, immaginata, desiderata dai numerosi Leccesi di Neuchâtel, dagli Agrigentini e dai Catanesi de La Chaux-de-Fond, dai portoghesi e dagli spagnoli che scappavano dalla fame. Svizzera desiderata da chi si allontana da se stesso, come me, per cercare di guardarsi ad uno specchio. Ancora adesso cerco una traduzione alle pietre di questa città e al silenzio del lago dalle onde piatte.