Esercizio #15 – Il deserto dei Tartari

Il deserto è un luogo dell’anima, primariamente. Il deserto vive dentro di noi ancor prima di esistere come luogo fisico. Tuttavia i deserti sono meno lontani di ciò che si pensi.

 Viale dei Picciotti, Palermo, Italy

Viale dei Picciotti, Palermo, Italy

Scirocco. Duro, polveroso scirocco che non permette di respirare soffia su tutta la città. Rammolliti, ci si ripara con la flemma, fino all’inattività, il silenzio, bevuto su una birra ghiacciata, fissando il nulla. Mi ritrovo dove mai prima d’ora ero stato: il viale dei picciotti per me fino a qualche giorno fa nemmeno esisteva. Adesso so che comincia dove Palermo si dimentica del fiume Oreto, là dove si getta verdastro in un mare inaccessibile, che sta lì solo a segnare un altro confine tra i milioni di confini di questi quartieri di una parte di città spesso dimenticata e che, forse, ha fatto di tutto per farsi dimenticare. Non troppo lontano, come cadaveri penzolanti da una forca, i materiali di risulta del progresso. Le ciminiere di mattoni delle industrie di fine ed inizio secolo ormai smantellate, così come gli scheletri delle enormi cisterne ed infine tutto attorno speculazione edilizia, come corvi a divorare ciò che resta. Palazzi di 12 e 14 piani di edilizia popolare, dalle architetture ricavate dalla testa di Escher, dove si perdono scale rugginose su mattonelle bianche e azzurre e le porte delle case sembrano sospese sui muri.

Maurits Cornelius Escher - Relatività - Luglio 1953

Maurits Cornelius Escher – Relatività – Luglio 1953

Qui la vita stessa appare abusiva. Da ogni anfratto si ricavano box in lamiera, chiusi da grossi lucchetti, mentre nel giro di 5 minuti passano 5 ambulanti diversi vendendo dalla verdura, allo sfincione, fino ai moci. Dal bagagliaio di una di queste auto scorgo la scatola dove viene riposto il megafono, cui è stata sovrapposta una grossa scritta in uniposca nero “bannia”. Le cose assumono quell’aspetto talmente folkloristico da sembrare surreale, quasi che gli attori in campo godessero nell’esasperazione dei comportamenti più kitsch riconosciuti alla città. Poco dopo, quasi in punta di piedi, passa una gazzella dei Carabinieri. Riesco a rivedere tutta questa scena con gli occhi di un militare friulano, sbarcato qui a tentare di mettere ordine: come riuscire a mettere ordine, se non si riesce a capire nemmeno qual è la regola che in questo momento regna? Alla fine mi scopro neanche troppo lontano da questo Carabiniere friulano. Sono straniero in terra straniera a due passi da casa mia e qui ancora mi stupisco della straordinaria capacità dello Stato di essere ironico. Le traverse di viale dei picciotti sono quasi tutte intitolate a patrioti italiani, fino al grande colpo di teatro: la via Antonino Saetta, magistrato ucciso dalla mafia nel 1988 (ma non un riferimento al fatto che sia stato vittima della mafia è presente sul cartello di indicazione).

Antonino Saetta (1922 - 1988), magistrato vittima della mafia

Antonino Saetta (1922 – 1988), magistrato vittima della mafia

In mezzo ai palazzoni, agli abusivi, ai posteggiatori il giudice Saetta e la sua memoria sono lasciati soli. Chissà cosa succederebbe se chiedessi chi fosse il giudice Saetta qui. Eccolo il mio deserto, tra gli autobus posteggiati al sole in attesa di accedere all’autolavaggio a loro dedicato, con le facce smunte dei vecchi mangiati dal sole e dalla salsedine ad ingrossare gli ultimi scampoli del fegato sotto delle lamiere tappezzate di manifesti elettorali, forse anche sede elettorale del candidato nella zona. A cosa abbiamo lasciato in mano il ricordo del giudice Saetta? Forse ho un po’ perso la speranza. Forse ho appena cominciato a serrare i denti.

Esercizio #2 – Traduzioni

Arrivando qui, pensavo fosse automatico guardare e poter osservare.

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La differenza può non essere a prima vista evidente, ma a mio avviso esiste. Guardare è l’azione primigenia e primaria: attestare con il cervello lo stimolo dell’occhio; osservare è l’azione successiva: volgere lo sguardo. Potrebbe sembrare ridicola quest’affermazione, ma in realtà questa frase ha una sua dignità epistemologica, semantica, simbolica. “Volgere lo sguardo”, cominciamo dal secondo termine. Occhio e sguardo non sono esattamente la stessa cosa, e questo mi sembra assodato. Mentre l’occhio è l’oggetto, già caricato dei suoi segni e dei suoi simboli indubbiamente, lo sguardo è l’uso dell’oggetto in maniera ben determinata. Paradossalmente la differenza è che l’occhio tutto cattura come un obiettivo, aperto ad ogni angolo; lo sguardo, al contrario, esclude particolari, chiude l’angolo, si concentra su una cosa sola o su una scena e non vede tutto. L’occhio dello sguardo è quindi “pigro” (nel frattempo vi vado spiegando un po’ di cose), nel senso che abbiamo qui sopra detto. Lo sguardo lavora come farebbe un pigro, facendo solo le cose per cui ha interesse. Tornando a noi dunque, lo sguardo è il momento in cui si prende lo strumento “in mano” e si comincia a riflettere su come può essere utilizzato. Ma non serve solo lo sguardo. L’azione del volgerlo implica che si abbia la coscienza sufficiente per farne un uso quanto meno consapevole. Eppure, sebbene il solo volgere lo sguardo sia un’azione simbolica importante, per il nostro obiettivo non è sufficiente. Lo sguardo può arrivare ad osservare le cose, a creare una gerarchia simbolica e segnica che abbia un senso accettabile (“quella è una casa”), ma questo non vuol dire che riesca a tradurre e contestualizzare il fatto che “quella è una casa bella”. A questo punto subentra l’atto del vedere. Visualizzare, attestare un’esistenza e un significato di significati (un ipersignificato?) a ciò che l’occhio ha potuto osservare è vedere. Vedere è tradurre e attestare e questo è il processo senza mettere, a mio modesto avviso, in ballo senza mettere in mezzo per il momento altri concetti, come bellezza, ad esempio. Quante informazioni si perdano lungo questo processo velocissimo, ma importante e non automatico, non lo sapremo davvero mai, però mi chiedo: ci servono più informazioni per il nostro scopo? Tradurre è corrompere, modellare secondo schemi, eliminare, fare un’operazione discreta, scremare, setacciare, tagliare. Non è il complesso, è il dettaglio che caratterizza e preoccupa il genere umano da sempre.

Ora, tradurre non è operazione facile, come ho tentato di spiegare, e viene condotta secondo certi schemi mentali, cosa che può permettere di non riuscire a comprendere i dati, a non riuscire ad accedere al lato allegorico di un “testo” sensoriale. Eccomi allora calato in una realtà e alle prese con i macchinosi trucchi della mente. Passato lo stupore per un mondo nuovo, ho tentando più volte di perdermi a Neuchâtel, guardando al di là del lago, cercando immagini tra le vie,  tra gli alberi che costeggiano la città e quasi la inghiottono gentilmente, inscritte nelle pietre ben tagliate a fare i palazzi. La risposta è stata spesso frustrante, probabilmente anche a causa di una serie di lacune e di predisposizioni d’animo troppo aggressive da bestia braccata. In ogni caso mi chiedevo dove davvero fosse Neuchâtel, cosa mi mancasse per vedere le peculiarità. In parte posso dire che mi è mancato il tempo – 8 mesi sono davvero pochi – ma dall’altra parte qualcosa, nei miei schemi non entrava per come doveva.

Della città ti colpisce il calpestio dei passi nitido, intervallato dallo scivolare dei filobus, con il loro cicalìo elettrico, delle macchine mai nervose, la portata del vento, che però non ulula e non sbatte tra le case abituate, tra le vie costruite per non creare mulinelli, ma assecondare la potenza del freddo delle Alpi e del Jura. Placida, Neuchâtel si sveglia e si assopisce con assoluta discrezione, solo talvolta disturbata dal ruggire dei treni merci di notte. La città dorme di luci basse, molti buii che altrove farebbero tremare il passante, la città conserva i suoi misteri dietro uno sguardo di Sfinge, dietro le numerosi effigi sincretiche di un illuminismo framassone, di cui Neuchâtel s’è a pieno bagnata. L’Età dei Lumi ha lasciato con sé però solo le ombre, i chiaroscuri, le immagini dietro forme appena abbozzate, il gran numero di fontane che sono i punti di riferimento e ristoro di chi cammina a piedi, fino a Cadolles, fino a Pierre-à-Bot, dove ancora minori sono le luci e si domina il gioco di abbozzi rilucenti che suggerisce i villaggi dell’altra riva e il lento, silenzioso scorrere di una città dormiente di una Svizzera di confine, un’isola in un continente.

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Si, la Svizzera è un’isola. I suoi confini sono netti, chiari, sebbene corrano lungo le matrici di diversi retaggi, sebbene non siano segnati dall’orizzonte del mare. Oltre quelle montagne, la Francia sembra un altro pianeta, lontano, eppure allo stesso tempo tanto influente. I frontalieri, come al confine con l’Italia, creano lo scatto di nazionalismo della barriera. Oltre quelle montagne c’è un altro mondo, oltre quelle montagne c’è una vita crudele, oltre la linea ci sono i Fransquillons, gente di cui non fidarsi, ladri, pronti sempre a far sciopero e cagnara. La Svizzera è calma, all’esterno, e tale deve restare. La Svizzera è forma e la forma è già metà della sostanza. La Svizzera lavora, l’Europa protesta. L’atmosfera è per questo assolutamente placida, ma nasconde dietro mille esistenze complesse e rumorose.

Ancora non vedo l’insieme di tutte queste anime. Ho visto solo la facciata di questo grande palazzo e la sua apparenza stordisce e le ragioni sembrano essere contorte, talmente complesse da ritornare in forma di semplici, spiazzanti spiegazioni. “C’est la Suisse, mon ami”. C’est la Suisse non può bastarmi.