Esercizio #12 – Casa e case

La mia camera è in perenne stato di emergenza. Il disordine e la polvere, come in ogni camera di uno studente uomo di venticinque anni celibe, regnano sovrani incontrastati. La mia camera mi rappresenta. Le case delle nostre vite ci rappresentano e sono il nostro specchio.

Mi sembra di essere in Svizzera da una vita o mi sembra che la mia vita non sia mai stata davvero da un’altra parte. Mi sveglio la mattina e ho la labirintica sensazione di una Sindrome di Stoccolma continua. Sono a casa? No, non sono a casa. Dove sono? Sicilia o Svizzera? Poi la riaffermazione della verità. Andrò fuori dalla mia camera e sarò in un Paese straniero. Entro le mie 4 mura, forse, sono un po’ più a casa mia.

Tuttavia hanno sempre avuto l’aspetto della provvisorietà intriso fin dentro le pareti. Da questo punto di vista le mie camere hanno la stessa conformazione di quelle d’albergo: mobilia kitsch e standard, nessun quadro, poster o fotografia, lo stretto indispensabile, montagne di disordine e la valigia sempre aperta, anche quando sono passati 4 mesi dall’ultima partenza. Questo stato mi ricorda come vivo: continuo dubbio e attesa dello stadio successivo, sapendo già che un giorno chiuderò per l’ultima volta la porta di quella stanza dietro di me, avendo ripreso le mie cose per metterle di nuovo nel mio guscio di lumaca, con la mia casa sulle spalle o richiusa dentro un trolley. In questo stato di caos, di continuo passaggio tra una crisi e l’altra, nel senso più turneriano del termine, c’è sempre spazio per i libri e per gli scontrini. I primi si nascondono talvolta bene, ma dentro hanno interi pezzi di vita. Ricordano momenti o interi periodi. Ci sono le Cosmicomiche di Calvino, lette per la prima volta in un agosto di novità e poi rilette ad una voce desiderata come favole per inguaribili adulti visionari; c’è stato e adesso riposa tranquillo – a stagionare prima della prossima apertura – Saggio sulla lucidità di Saramago, letto nel giro di una notte, fino all’alba soffiata di un inizio giugno. Come le stagioni, riposano per essere in seguito ripresi, i libri.

Gli scontrini, invece, invadono indiscriminatamente ogni anfratto: scontrini di supermercati, bar, pub, ristoranti, bancomat, biglietti di treno e di aereo, brochure mai lette di iniziative sconosciute in posti in cui non vorrei mai avere accesso, linguacce di trasfigurate gothic girls che mi ricordano che i rave e i goa in Svizzera vanno forte. Ci sono appunti mai riletti con penne che adesso si perdono nei tascapane o nelle borse di qualcun altro, mappe, pezzi di carta, promemoria riletti con tre mesi di ritardo. Gli scontrini dicono anche loro della mia vita: mi ricordano la spietatezza del consumo, una parola che in Svizzera ha un senso orribilmente importante, mi rimettono frammenti di vita, che si aprono con un nome accattivante e si chiudono con un “Merci de votre achat” o “Grazie e arrivederci” o “Thanks and goodbye”. Frammenti, appunto, lunghi come una serata o di svogliata necessità come latte, pane e carne scritti e riscritti sopra esose quittances di coloratissimi, illuminatissimi e asettici supermercati. Siamo ciò che mangiamo, senza remissione di peccato.

Ora che ho finito le mie spicciole pulizie, rivedo questa casa nel suo insieme. No, non c’è la mia mano qui, se non oltre la mia porta, ma fuori leggo i percorsi di un’altra persona e ogni volta resto stupito ad osservare. C’è l’irrequietezza di questa società, che si trova sospesa ancora tra un coro alpino e una massima del feng-shui. Così, accanto a fiori di campo e piccole mucche con la croce bianca sul fianco ci sono elefanti indiani in piedi grazie all’intreccio di fibre scure che non odorano più del posto da cui vengono, tutti questi oggetti disposti secondo l’arte zen dell’arredamento, bilanciando le energie, per un ambiente friendly and comfortable. In 9 mesi, durante ogni settimana, almeno una volta a settimana, ho assistito al balletto degli stessi mobili e delle stesse tende spostate di stanza in stanza, poste in verticale o in orizzontale, appoggiate ad un muro o ad un altro. Qui comincia il mio campo minato, nel cercare ogni volta di comprendere le nuove geometrie, mentre, come armata di sua propria volontà questa casa cambia, si muove, progredisce. La mia giungla di traduzioni mancate comincia al di fuori della mia porta.

http://www.youtube.com/watch?v=Uf7tPf7z1Hk

Piano piano, ogni giorno sempre di più, mi riappacifico con quell’altro me lasciato in un’altra stanza che chiamo ancora casa a 2000 km di distanza e ne aspetto un’altra – di casa – tutta da costruire con le idee, con un cammino che si accresce. Dentro queste camere posso sentire le mie mani poggiare cose nuove, desiderare contatti con oggetti conosciuti, respirare gli odori di una routine imparata con anni di esperienza. Casa mia è dove poso il mio zaino, dove ho lasciato le mie magliette in attesa.

http://www.youtube.com/watch?v=kr2gRni7bio

Speculum #2 – Lettura

Ascolto. Sulle parole pronunciate ci sono forme e colori, doppi, di Marquez e di te, lettrice. Dove finisce l’acqua delle tue parole che scorre?

John Everett Millais – Ophelia (1851-1852)

Il punto non è la perfezione, no, non la perfezione della pronuncia, né l’intonazione. Ogni intonazione è, in effetti, la configurazione musicale-immaginifica-frattalica di tutti quei livelli che posso vedere nel tuo oscillare sul libro, nel continuo vortice a due sensi che rivedo, immergendomi nell’ascolto. Così, ipnotizzato come il cobra, ricostruisco parole e sensazioni, immagini, ritratti, versi. Da cosa è ipnotizzato in realtà il cobra dell’incantatore?

Il cobra è incantato dal movimento del flauto. Il centro dell’universo è il movimento. Come può un centro continuare a muoversi? Eppure la testa del serpente continua ad osservare la bocca del flauto, il fuoco di tutti i desideri, il tremolio scintillante e nero del flauto che si muove, si ferma, si muove ancora. Il cobra segue quel centro che pare incerto, ma che continua quell’oscillare sapiente. Forse è perfetto questo? Le incertezze dell’incantatore sono perfette. Il centro è il libro che oscilla al tempo delle tue parole. C’è un pianeta che ruota, è ruotato, rotola, è fermo.

Il cobra è incantato dalla melodia. Il cobra assaggia la musica con la lingua, la respira con il naso, se la ritrova ubriacante nelle orecchie. La melodia cosa dice al cobra? Il centro dell’universo è la melodia che si spande da un centro. La forma delle tue guance è uno spartito che poi esita sulle tue labbra. Le pause sono forme, le pause prendono forma, e la tua voce è anche il silenzio della voce che imbastisce mondi e galassie parallele. Anche negli errori, nella fretta c’è perfezione? L’incantatore sbaglia una nota, il cobra continua ad essere attratto, la sua lingua odora l’aria, la sua lingua odora il fiato musicale dell’incantatore.

Il cobra è incantato dall’incantatore. Sulle linee del sopracciglio, del naso dell’orecchio, l’occhio immerso nella melodia letta e ogni volta imparata, di cui l’incantatore stesso si sorprende, il cobra si perde: la sua lingua, i suoi occhi guardano e azzeccano le asperità minuscole della pelle, si perdono tra le sfumature dell’incarnato assorto nella lettura, nella lettura del cobra. Gli occhi dell’incantatore e del serpente si incontrano come non si sono mai incontrati, come si incontrano ogni volta come fosse la prima volta. Le labbra dell’incantatore vogliono il serpente che è la morte, il cobra stesso vuole la morte su quelle labbra.

Il cobra danza e il mondo scorre come l’acqua, scorre come l’incantatore. L’incantatore scivola le sue parole come l’acqua sulle pietre erose dalla pazienza di acqua sempre nuova, sempre uguale, quante gocce d’acqua sono tra esse uguali? Eppure nessun segno, per quanto formalmente uguale, è contestualmente lo stesso. Per questo il cobra beve del fiato assorto dell’incantatore e danza, perché è il centro di un universo che non ha centri, ma solo oscillazioni. Il cobra è innamorato di mille proiezioni, dei mille livelli, delle miriadi di oscillazioni che l’immaginazione di un serpente crea mettendo insieme i segni della Qabalah. I mondi così crescono tra le parole e tutte le non-parole, i non-segni, le non-sensazioni e tutte quelle che sono proiezioni che vengono dallo stomaco, tremano sulla lingua, digrignano i denti e diventano solo silenzio.

L’acqua delle tue parole che scorre leviga le pietre.