Esercizio #13 – Partenze

Risveglio impastato senza sveglia, a tappe: 07.17; 09.17; 09:21. Il letto mi ha risputato fuori alla stessa maniera di come mi aveva accolto: stanco, con la schiena rotta. No, non dormo bene. Capita di tanto in tanto e leggo il perché anche nei sogni che faccio.

http://www.youtube.com/watch?v=Z0kGAz6HYM8

Ho raschiato il fondo di alluminio della confezione del caffè. Gli ultimi granelli di macinato finiscono sulla carta da cucina, dimenticati attorno alla forma della caffettiera che, piena, non li ha voluti, il mio ultimo caffè in Svizzera. Adesso che sono alla fine la testa tira strani scherzi: ricordo nitidamente le voci che mi hanno accompagnato in questi mesi, l’accento di r arrotolate come nessun altro fa in tutto l’universo francofono, i posti, i (pochi) odori, qualche esperienza, tutto poi si mischia a creare un enorme melting pot senza capo né coda, dentro il quale si segue una storia senza intreccio, senza inizio o fine. Non mi chiedo più di tirare le somme, so che qualunque metro di giudizio provi ad utilizzare sarà incompleto ed inutile. Ritorno al mio caffè.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Più di tutto mi sono attaccato al caffè per sentire ancora un po’ l’aria di casa, per non dimenticarla, per resistere alla durezza di temperature mai provate, di deserti silenziosi, dove, alle volte, non sono riuscito a carpire la presenza umana. In buona sostanza me ne vado. In buona sostanza posso dire di non aver capito. Nel caffè, allora, rivedo la mia lunga partenza, questi 10 mesi, come un giro lungo per ritornare a casa, a posti che posso adesso riconoscere con più leggerezza. Prendo il primo sorso con movimenti compassati, odoro, ancora prima di portare alle labbra, l’asprezza a tratti tannica, l’ubriacante mielosità dell’arabica. Più di tutto mi è mancato il mare.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

La prima volta che sono tornato, la mia valigia era piccola, modesta: portavo i vestiti per una settimana, ma dentro di me avevo la pesantezza di molte cose da sciacquare via. Andavo via da un mese di nebbia, intrappolato dentro un enorme nulla, nemmeno il lago poteva darmi quel respiro che qui pian piano si faceva sempre più corto e affannoso. Volevo lavare via la stessa durezza melanconica con cui ero partito. Ho cercato l’odore del mare e, sorpreso, non sono riuscito a trovarlo. Era scomparso dalla mia testa. Al secondo sorso di caffè la mia lingua si irrigidisce al contatto acidulo. Lo apprezzo, lo faccio diventare introspezione. Più di tutto mi sono mancati gli amici.

Ho vestito la maglia della mia squadra, la maglia della mia famiglia acquisita per tre volte quest’anno. Ho preso il mio bagaglio di abbracci e sono ripartito, trattenendo le lacrime dolorose di un distacco che io stesso ho cercato. Allora mi sovviene la storia della rana e dello scorpione e mi dico che, forse, è la mia natura. La mia natura: adesso ricordo che ero partito per trovarla. Tuttavia, partire e fuggire, partire ed esiliarsi non sono la stessa cosa. Al terzo sorso, uguale al secondo e uguale forse a tutti i secondi e terzi sorsi che ho preso da ogni tazzina di caffè, vedo appena il fondo. Più di tutto mi è mancata la famiglia.

La prima sera che ho dormito di nuovo nel mio letto ho dormito come mi sembrava di non aver mai dormito in vita mia. Un sonno lungo, pieno di sogni, consolatore. Lì dove ho la mia famiglia so che ho casa mia e ancora, nonostante il tempo mi abbia fatto crescere la barba e mi abbia accompagnato fuori di casa con l’impellenza di decisioni volte al futuro, riesco ad emozionarmi per un bacio di mia madre, a sentirmi protetto, come da bambino, tra le braccia di mio padre. A pensarci, in quella casa in campagna dove torno e che chiamo “casa”, lì si sono condensate migliaia di esperienze, si è consolidato un éthos. A toccare le mura ruvide posso sentire le mani callose di mio padre, così come la sua passione, e ancora sul lungo e liscio tavolo di legno massiccio rivedo la sua pazienza silenziosa. Da piccolo il suo meditare era per me un inesplicabile mistero, adesso so che al di là della sua mutezza ci sono mille progetti con un futuro ed uno scopo. E adesso, che la disillusione ed il cinismo mi hanno fatto addosso una dura scorza di cicatrici, c’è ancora una favola che resiste al tempo: mio padre è il mio unico eroe, l’unico di cui davvero vorrei riuscire a seguire le orme. Al fondo della tazzina resta qualche granello bruciacchiato, imbevuto di un caffè che sa poco di caffè. Più di tutto mi è mancata una vita.

E lì sul fondo, a poche ore ancora dall’andare a riprendere tutto, dipanando meglio i fili di Lachesi, posso risentire quella voce che mi aspetta, caracollando tra l’impazienza e la calma. Il mio prossimo caffè avrà due tazzine.


Esercizio #13 – Gabbie

Il gatto è il vero padrone di questa casa. Dorme, mangia, vive qui ventiquattr’ore su ventiquattro, ogni giorno di ogni mese di ogni anno. Il gatto è il vero padrone della casa.

Contrada Iria, Sant'Agata Militello (ME), Sicilia, Italia

Sonnecchia sui divani, sui letti nelle posizioni più complesse e plastiche come un acrobata della pigrizia, stanco forse di un pensiero di troppo, quel pensiero che lo fa ancora più pigro. I suoi passi, glissati come un piatto jazz, di tanto in tanto si possono sentire rompere l’immane e spaventoso silenzio di una casa svizzera, affogata nella calma piatta ed irreale di Planeyse, il trait d’union tra Colombier e Bôle, dove solo la ferrovia ruggisce di tanto in tanto, come un mostro che ammonisce i villici della sua presenza ad intervalli regolari. Non c’è mai fretta nel suo passo, bonario com’è, non ha mai torto un capello nemmeno ad una mosca. Ha tutto ciò che vuole, non potrebbe essere altrimenti, avendolo, con crudele egoismo, privato perfino della pulsione sessuale. Maschio, ma solo perché non potrebbe essere femmina, il gatto è il re.

Lo osservo mentre guarda fuori dalla finestra, conserte e immobile per ore, mentre fissa il giardino dove altri gatti – alcuni obesi e grevi, altri snelli e furtivi – lasciano che il sole li riscaldi, chiudendo gli occhi su un sonno annoiato, ma che sembra essere benedetto da chissà quale divinità. Guarda fuori, e sento le sue paure e i suoi desideri uscire forti dalla sua testa nera ad ogni movimento di orecchie. Là, nel giardino, tra le siepi, sotto il fresco di un albero lui vede la sua vita, quella che non potrà mai avere, quella che la sua codardia e la sua pigrizia hanno scelto di non dargli.

Proiettato adesso su di lui, poi curvo sul mio computer a scrivere, mi rivedo come il gatto in quest’istante: nell’aria di dismissione lungo cui sto lasciando scorrere il conto alla rovescia di queste ultime giornate svizzere, costretto in casa dagli ultimi esami, costretto dalla mia pigrizia, dalla nervosa indolenza del dovere, non sono poi così diverso dal gatto. Le mie paure e i miei desideri sono più grandi, ma le nostre condizioni ci accomunano e per questo ci evitiamo con distratta attenzione, per non rivederci così stretti l’uno negli occhi dell’altro. Il gatto è il re della casa, ma è lo schiavo di se stesso. Il gatto, in fin dei conti, ha paura di rompere la sua dorata maledizione.

Così alla finestra, mentre vedo il verde splendente di una domenica mattina che annuncia estate, vedo anche il mio riflesso. Guardandomi sto guardando la mia prigione.

Planeyse, Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Il Drago è solo, gli uomini ne fanno un dio

Scavo più in profondità dietro gli occhi sdoppiati dal vetro. Una voce rassicurante, mia come può essere qualcosa di voluto con ogni fibra del corpo, mi dice:

– “Svegliati, stai tornando” –

– “A casa” –

Esercizio #12 – Casa e case

La mia camera è in perenne stato di emergenza. Il disordine e la polvere, come in ogni camera di uno studente uomo di venticinque anni celibe, regnano sovrani incontrastati. La mia camera mi rappresenta. Le case delle nostre vite ci rappresentano e sono il nostro specchio.

Mi sembra di essere in Svizzera da una vita o mi sembra che la mia vita non sia mai stata davvero da un’altra parte. Mi sveglio la mattina e ho la labirintica sensazione di una Sindrome di Stoccolma continua. Sono a casa? No, non sono a casa. Dove sono? Sicilia o Svizzera? Poi la riaffermazione della verità. Andrò fuori dalla mia camera e sarò in un Paese straniero. Entro le mie 4 mura, forse, sono un po’ più a casa mia.

Tuttavia hanno sempre avuto l’aspetto della provvisorietà intriso fin dentro le pareti. Da questo punto di vista le mie camere hanno la stessa conformazione di quelle d’albergo: mobilia kitsch e standard, nessun quadro, poster o fotografia, lo stretto indispensabile, montagne di disordine e la valigia sempre aperta, anche quando sono passati 4 mesi dall’ultima partenza. Questo stato mi ricorda come vivo: continuo dubbio e attesa dello stadio successivo, sapendo già che un giorno chiuderò per l’ultima volta la porta di quella stanza dietro di me, avendo ripreso le mie cose per metterle di nuovo nel mio guscio di lumaca, con la mia casa sulle spalle o richiusa dentro un trolley. In questo stato di caos, di continuo passaggio tra una crisi e l’altra, nel senso più turneriano del termine, c’è sempre spazio per i libri e per gli scontrini. I primi si nascondono talvolta bene, ma dentro hanno interi pezzi di vita. Ricordano momenti o interi periodi. Ci sono le Cosmicomiche di Calvino, lette per la prima volta in un agosto di novità e poi rilette ad una voce desiderata come favole per inguaribili adulti visionari; c’è stato e adesso riposa tranquillo – a stagionare prima della prossima apertura – Saggio sulla lucidità di Saramago, letto nel giro di una notte, fino all’alba soffiata di un inizio giugno. Come le stagioni, riposano per essere in seguito ripresi, i libri.

Gli scontrini, invece, invadono indiscriminatamente ogni anfratto: scontrini di supermercati, bar, pub, ristoranti, bancomat, biglietti di treno e di aereo, brochure mai lette di iniziative sconosciute in posti in cui non vorrei mai avere accesso, linguacce di trasfigurate gothic girls che mi ricordano che i rave e i goa in Svizzera vanno forte. Ci sono appunti mai riletti con penne che adesso si perdono nei tascapane o nelle borse di qualcun altro, mappe, pezzi di carta, promemoria riletti con tre mesi di ritardo. Gli scontrini dicono anche loro della mia vita: mi ricordano la spietatezza del consumo, una parola che in Svizzera ha un senso orribilmente importante, mi rimettono frammenti di vita, che si aprono con un nome accattivante e si chiudono con un “Merci de votre achat” o “Grazie e arrivederci” o “Thanks and goodbye”. Frammenti, appunto, lunghi come una serata o di svogliata necessità come latte, pane e carne scritti e riscritti sopra esose quittances di coloratissimi, illuminatissimi e asettici supermercati. Siamo ciò che mangiamo, senza remissione di peccato.

Ora che ho finito le mie spicciole pulizie, rivedo questa casa nel suo insieme. No, non c’è la mia mano qui, se non oltre la mia porta, ma fuori leggo i percorsi di un’altra persona e ogni volta resto stupito ad osservare. C’è l’irrequietezza di questa società, che si trova sospesa ancora tra un coro alpino e una massima del feng-shui. Così, accanto a fiori di campo e piccole mucche con la croce bianca sul fianco ci sono elefanti indiani in piedi grazie all’intreccio di fibre scure che non odorano più del posto da cui vengono, tutti questi oggetti disposti secondo l’arte zen dell’arredamento, bilanciando le energie, per un ambiente friendly and comfortable. In 9 mesi, durante ogni settimana, almeno una volta a settimana, ho assistito al balletto degli stessi mobili e delle stesse tende spostate di stanza in stanza, poste in verticale o in orizzontale, appoggiate ad un muro o ad un altro. Qui comincia il mio campo minato, nel cercare ogni volta di comprendere le nuove geometrie, mentre, come armata di sua propria volontà questa casa cambia, si muove, progredisce. La mia giungla di traduzioni mancate comincia al di fuori della mia porta.

http://www.youtube.com/watch?v=Uf7tPf7z1Hk

Piano piano, ogni giorno sempre di più, mi riappacifico con quell’altro me lasciato in un’altra stanza che chiamo ancora casa a 2000 km di distanza e ne aspetto un’altra – di casa – tutta da costruire con le idee, con un cammino che si accresce. Dentro queste camere posso sentire le mie mani poggiare cose nuove, desiderare contatti con oggetti conosciuti, respirare gli odori di una routine imparata con anni di esperienza. Casa mia è dove poso il mio zaino, dove ho lasciato le mie magliette in attesa.

http://www.youtube.com/watch?v=kr2gRni7bio

Speculum #2 – Lettura

Ascolto. Sulle parole pronunciate ci sono forme e colori, doppi, di Marquez e di te, lettrice. Dove finisce l’acqua delle tue parole che scorre?

John Everett Millais – Ophelia (1851-1852)

Il punto non è la perfezione, no, non la perfezione della pronuncia, né l’intonazione. Ogni intonazione è, in effetti, la configurazione musicale-immaginifica-frattalica di tutti quei livelli che posso vedere nel tuo oscillare sul libro, nel continuo vortice a due sensi che rivedo, immergendomi nell’ascolto. Così, ipnotizzato come il cobra, ricostruisco parole e sensazioni, immagini, ritratti, versi. Da cosa è ipnotizzato in realtà il cobra dell’incantatore?

Il cobra è incantato dal movimento del flauto. Il centro dell’universo è il movimento. Come può un centro continuare a muoversi? Eppure la testa del serpente continua ad osservare la bocca del flauto, il fuoco di tutti i desideri, il tremolio scintillante e nero del flauto che si muove, si ferma, si muove ancora. Il cobra segue quel centro che pare incerto, ma che continua quell’oscillare sapiente. Forse è perfetto questo? Le incertezze dell’incantatore sono perfette. Il centro è il libro che oscilla al tempo delle tue parole. C’è un pianeta che ruota, è ruotato, rotola, è fermo.

Il cobra è incantato dalla melodia. Il cobra assaggia la musica con la lingua, la respira con il naso, se la ritrova ubriacante nelle orecchie. La melodia cosa dice al cobra? Il centro dell’universo è la melodia che si spande da un centro. La forma delle tue guance è uno spartito che poi esita sulle tue labbra. Le pause sono forme, le pause prendono forma, e la tua voce è anche il silenzio della voce che imbastisce mondi e galassie parallele. Anche negli errori, nella fretta c’è perfezione? L’incantatore sbaglia una nota, il cobra continua ad essere attratto, la sua lingua odora l’aria, la sua lingua odora il fiato musicale dell’incantatore.

Il cobra è incantato dall’incantatore. Sulle linee del sopracciglio, del naso dell’orecchio, l’occhio immerso nella melodia letta e ogni volta imparata, di cui l’incantatore stesso si sorprende, il cobra si perde: la sua lingua, i suoi occhi guardano e azzeccano le asperità minuscole della pelle, si perdono tra le sfumature dell’incarnato assorto nella lettura, nella lettura del cobra. Gli occhi dell’incantatore e del serpente si incontrano come non si sono mai incontrati, come si incontrano ogni volta come fosse la prima volta. Le labbra dell’incantatore vogliono il serpente che è la morte, il cobra stesso vuole la morte su quelle labbra.

Il cobra danza e il mondo scorre come l’acqua, scorre come l’incantatore. L’incantatore scivola le sue parole come l’acqua sulle pietre erose dalla pazienza di acqua sempre nuova, sempre uguale, quante gocce d’acqua sono tra esse uguali? Eppure nessun segno, per quanto formalmente uguale, è contestualmente lo stesso. Per questo il cobra beve del fiato assorto dell’incantatore e danza, perché è il centro di un universo che non ha centri, ma solo oscillazioni. Il cobra è innamorato di mille proiezioni, dei mille livelli, delle miriadi di oscillazioni che l’immaginazione di un serpente crea mettendo insieme i segni della Qabalah. I mondi così crescono tra le parole e tutte le non-parole, i non-segni, le non-sensazioni e tutte quelle che sono proiezioni che vengono dallo stomaco, tremano sulla lingua, digrignano i denti e diventano solo silenzio.

L’acqua delle tue parole che scorre leviga le pietre.

Proiezioni #1 – Ephraim

Piove che quasi sembra mi piova dentro la testa. Il vento alle persiane sbatte, cercando di raggiungere ogni angolo, frustrato nel tentativo.

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Apro gli occhi. Nel mio letto io esco da una casa di pietra a strapiombo sul mare. Tutto attorno ulivi con le chiome scarmigliate in una posa supplichevole dal vento di anni – quante epoche può raccontare un ulivo? – adesso placido e assopito da un sole estivo, che fa chiazze luminose sulla terra altrimenti nascosta dagli alberi. Germoglia l’erba, sono a piedi scalzi e posso sentire il mondo scorrere insieme a me, umido e rigoglioso, l’acetosella mi accompagna come te in mezzo a questa pace. E’ un’estate di ogni anno della mia infanzia, così come di altri periodi della mia vita e posso sentire l’odore adesso inconfondobile della carne sulla brace. Mio nonno, poi anche l’altro, il secondo come se fosse una presenza immanente, dentro e fuori di me.

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Lipari si appoggia su un mare adesso quasi piatto, che si può vedere, scuro e profondo di blu, dalla scogliera erosa dai marosi. Non so se questa Lipari sia mai esistita, ma lì dove niente è davvero impossibile, questa è Lipari. Al di là di ogni ragionevole dubbio, posso guardarti attraverso il filtro della luce solare. Il tuo sorriso mi racconta ogni parola. Posso ascoltare la tensione della tua pelle, catturata dalla spensieratezza, infine illuminare il verde intenso dei tuoi occhi e dirmi quanto sia bella tu e quest’isola che ci accomuna. Il vulcano scorre tra i tuoi capelli, ti posso sentire tutt’una con le cose della natura, indivisibile, intensa, come se tutto appartenesse e cospirasse della stessa essenza. Un respiro intenso mi cattura e mi porta il mare e ogni desiderio si condensa in una sensazione. So che ci sei e io sono Ephraim, doppiamente fecondo, finalmente lontano dall’Egitto.

Ephraim. Questo nome vedo scritto. Io sono Ephraim. Sono a casa e niente può spostarmi da qui. Mi risveglio con un trillo. Sono ancora lontano, ma ogni giorno è un passo verso il ritorno.

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