Esercizio #13 – Gabbie

Il gatto è il vero padrone di questa casa. Dorme, mangia, vive qui ventiquattr’ore su ventiquattro, ogni giorno di ogni mese di ogni anno. Il gatto è il vero padrone della casa.

Contrada Iria, Sant'Agata Militello (ME), Sicilia, Italia

Sonnecchia sui divani, sui letti nelle posizioni più complesse e plastiche come un acrobata della pigrizia, stanco forse di un pensiero di troppo, quel pensiero che lo fa ancora più pigro. I suoi passi, glissati come un piatto jazz, di tanto in tanto si possono sentire rompere l’immane e spaventoso silenzio di una casa svizzera, affogata nella calma piatta ed irreale di Planeyse, il trait d’union tra Colombier e Bôle, dove solo la ferrovia ruggisce di tanto in tanto, come un mostro che ammonisce i villici della sua presenza ad intervalli regolari. Non c’è mai fretta nel suo passo, bonario com’è, non ha mai torto un capello nemmeno ad una mosca. Ha tutto ciò che vuole, non potrebbe essere altrimenti, avendolo, con crudele egoismo, privato perfino della pulsione sessuale. Maschio, ma solo perché non potrebbe essere femmina, il gatto è il re.

Lo osservo mentre guarda fuori dalla finestra, conserte e immobile per ore, mentre fissa il giardino dove altri gatti – alcuni obesi e grevi, altri snelli e furtivi – lasciano che il sole li riscaldi, chiudendo gli occhi su un sonno annoiato, ma che sembra essere benedetto da chissà quale divinità. Guarda fuori, e sento le sue paure e i suoi desideri uscire forti dalla sua testa nera ad ogni movimento di orecchie. Là, nel giardino, tra le siepi, sotto il fresco di un albero lui vede la sua vita, quella che non potrà mai avere, quella che la sua codardia e la sua pigrizia hanno scelto di non dargli.

Proiettato adesso su di lui, poi curvo sul mio computer a scrivere, mi rivedo come il gatto in quest’istante: nell’aria di dismissione lungo cui sto lasciando scorrere il conto alla rovescia di queste ultime giornate svizzere, costretto in casa dagli ultimi esami, costretto dalla mia pigrizia, dalla nervosa indolenza del dovere, non sono poi così diverso dal gatto. Le mie paure e i miei desideri sono più grandi, ma le nostre condizioni ci accomunano e per questo ci evitiamo con distratta attenzione, per non rivederci così stretti l’uno negli occhi dell’altro. Il gatto è il re della casa, ma è lo schiavo di se stesso. Il gatto, in fin dei conti, ha paura di rompere la sua dorata maledizione.

Così alla finestra, mentre vedo il verde splendente di una domenica mattina che annuncia estate, vedo anche il mio riflesso. Guardandomi sto guardando la mia prigione.

Planeyse, Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Il Drago è solo, gli uomini ne fanno un dio

Scavo più in profondità dietro gli occhi sdoppiati dal vetro. Una voce rassicurante, mia come può essere qualcosa di voluto con ogni fibra del corpo, mi dice:

– “Svegliati, stai tornando” –

– “A casa” –

Esercizio #3 – Zeitgeist

Zoppo di qualche guaio sportivo di troppo, scendo una stradina persa tra le vigne e le case con i tetti a spiovente, talvolta interrotti da cambiamenti di angolo, a fare uno stile tutto particolare, indubbiamente svizzero. L’odore di acacia mi inebria le narici.

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Un sole di una giornata calda (per gli standard di queste latitudini) di maggio mette in risalto le sfumature di verde di questi posti. Vicino, oltre il muro di pietre a secco che sembra resistere da sempre con i suoi muschi incrostati e asciutti, i germogli verde chiaro delle vigne, ancora niente più che delle promesse, a perdita d’occhio salire e scendere tra le colline del Non-filtré e dell’Oeil-de-Perdrix, come una testa in cui ancora vedere i segni di un pettine passato in maniera troppo rude. Un leggero vento tra le foglie è l’unico rumore a Bôle e nella campagna limitrofa a mezzogiorno di un venerdì che sembra di festa. Qui e lì si affrettano i vignaiuoli per allestire le ultime cose per le “Caves Ouvertes”, quando le cantine più importanti della regione aprono i battenti per fare assaggiare e conosceri i propri prodotti. Un uomo prossimo a superare la mezza età, con movimenti lenti e gravi, bardato del suo grembiule blu e di un bonnet simile alla nostra coppola, si dà da fare entrando ed uscendo dalla sua cantine, poco più grande di un grosso garage, che un cartello in legno intarsiato segnala essere quello che è. Tutto ha l’aria bonaria e placida.

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Più lontano, lì dove il declivio diventa più gentile e quasi tende al piatto, si raggruppano alberi di faggio, quercia, tiglio, olmo, acero, pino ed abete in brevi e fitte macchie, là dove più sopra invece regnano a perdite d’occhio, come attorno alla gobba del Creux-du-Van, maestoso gigante dall’aspetto terribile. Ancora brilla l’erba fresca e vigorosa di una luce tanto attesa e che sembrava non dovesse più attraversare questi posti. Per me, abituato ad un sole quasi beffardo, talvolta duro, significa finalmente capire perché gli Inglesi chiamano il tentativo d’abbronzarsi “sunbathing”. La necessità di riempirsi di una luce calda, rilassante e che mette di buon umore, dopo un inverno lungo ed uggioso che ancora fatica a togliere definitivamente le tende, è fortissima e finalmente fa aprire gli occhi, la testa e le narici ad una realtà che rinasce. Adesso la Svizzera mi sembra qualcosa di un po’ meno estraneo e ho tempo per poterla vedere e tradurre a mia maniera.

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Mi perdo tra i riverberi della luce tra gli alberi e penso ai risultati incredibili del caos. In mezzo al caos delle foglie, ritrovo un filo conduttore senza parole ed osservo, rapito come dal piacevole richiamo di un entropico rumore di fondo. Lentamente porto alla mente altre immagini, altri colori. Cosa riesco ancora a vedere attraverso? La grande visione d’insieme del mondo, fatta di innumerevoli vicoli ciechi, di strade senza fine, di lunghe transumanze verso il niente. Mi fermo all’ombra di un faggio solitario al bordo della strada, lì dov’è stata messa una panchina, e sullo spaccato di un raggio sfuggito alla grande e intensamente verde superficie delle sue foglie, scorgo il mio pensiero stesso trasformato in movimento naturale: come tanti fiocchi di neve o di cotone, gli acheni dei soffioni volano, seguendo le correnti ventose. Un piccolo esercito bianco e silenzioso, che contribuisce ad un’atmosfera sognante, eppure macabra ed inquietante. Di questo grande gruppo, molti saranno coloro che non arriveranno a germogliare, fermati dalla casualità ed in parte dal destino delle correnti, cosa che adesso mi sembra un po’ come parlare di frattali.

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Torno a casa e oltre la finestra un pesco e un albicocco sono in fiore. Il vento è un po’ più forte e le infiorescenze si spampinano violentemente. Adesso sono ridondanti dei loro sforzi, ma presto la maggior parte di essi non sarà che marcio nutrimento a terra, prima bianco o rosa, poi infine nero e morto. Solo pochi resisteranno per dar vita a frutti succosi, lo scopo dell’intera vita di un albero. Guardo meglio, nella confusione, mi dico che la bellezza non è democratica, ma esclude i deboli, i non adatti, li sfrutta perché essa stessa possa risplendere ancora di più. Attratto dal ciclo mortale della natura, ritorno con la testa a casa. Palermo in questo momento odora di gelsomino. Con una voce io non me ne sono mai davvero andato.