Esercizio # 10 – Fino al sole

Oltre un oggetto c’è un segno. Oltre un segno potrebbe esserci un simbolo. Quello che ogni simbolo racconta è una storia.

Come ogni venerdì – in Svizzera, in Italia si tratta del sabato – ho tenuto i miei scarpini in mano per pulirli, per rimetterli a nuovo. In realtà non si tratta solo di questo. Lasciati al loro destino per tutto il resto della settimana, quando si accumulano il fango e la polvere degli allenamenti, che scandiscono il tempo di un rugbista meglio ancora di quanto non faccia una settimana, vengono riesumati da qualche borsone putrido dalla scorza ruvida della fibra sintetica, che sotto le dita ha un rumore e una sensazione particolare, come se l’ordito fosse tanto tangibile da azzeccare ogni punto. L’odore è forte: sudore, erba, terra, acqua accumulati e lasciati seccare e decantare come se fossero trofei, a creare quella sensazione pungente che chi è entrato in uno spogliatoio conosce bene. Quell’odore ti guida ogni giorno di allenamento e di partita, è come l’odore di casa, appena lo senti, sai che va tutto bene.

Prima di cominciare a pulire, mi perdo a guardarle nei dettagli. No, non sono perfette. I lacci cominciano a mostrare i primi sfilacciamenti, i tacchetti sono usurati dal continuo sfregamento su qualsiasi tipo di superficie e sembrano quasi dei canini spuntati, la pelle laccata comincia a mostrare, vicino alla suola, qualche segno di cedimento, dovuto all’assestamento sul mio piede, ai continui shock, infine all’incessante ingiuria degli agenti atmosferici. Qua e là mostrano qualche piccola scalfitura: tacchetti altrui, se ne vedono bene i profili, come di graffi di animali feroci. I miei scarpini sono come me. Sono storto di mille dolori, le mie dita ogni mese che passa segnano nuove storture e braccia e gambe in particolar modo mostrano i segni della tenzone. Eppure io e le mie scarpe siamo là. Abbiamo superato, indenni o meno, un numero che non ho mai contato di durezze e di asperità, mi hanno visto correre e camminare e mi hanno visto bloccato, placcato, calpestato. Su di loro, però, mi sono rialzato.

Comincio a togliere via il grosso con una pezza umida, con movimenti energici a seguire le cuciture, vicoli sotto le mie dita, che indicano la forza che tiene insieme la leggerezza della tomaia, i tacchetti, sei da trequarti, in alluminio, la gomma flessibile della suola. Tolgo le incrostature della settimana e con esse le preoccupazioni, mentre ripasso mentalmente il lavoro fatto, ripasso come sono arrivato a quel momento, tento di eliminare quella sensazione di teso vuoto che si annida allo stomaco e sotto il cuore a toglierti il respiro e che l’indomani sarà il ticchettare nervoso dei tacchetti vestiti sul cemento anonimo di uno spogliatoio, umido come una tana, imbevuto di umanità sudata e nervosa di testosterone, calda di canfora. Visualizzare, chiudere gli occhi, visualizzare gli obiettivi. Come un aruspice, dietro ogni pensiero interpreto come andrà domani, cercando sempre di scacciare gli influssi negativi, mentre continua, lento e deciso, il lavoro di pulitura.

Adesso il grosso è tolto, il colore non si nasconde più dietro la patina d’erba martoriata dallo schiacciamento, né dal fango schizzato violento ad ogni calpestamento. Adesso ritorna alla luce un blu forse un po’ opaco, ma ancora abbastanza brillante, e allora penso che io e i miei scarpini condividiamo molto più di uno sport, ma la vita. Sappiamo, io e le mie scarpe, che dalle ferite non si può tornare indietro. Ogni taglio, graffio, distaccamento ci ha cambiato irreversibilmente. Il mio naso rotto come la pelle mezza scollata, le mie giunture doloranti come i tacchetti smussati. Eppure anche questo è crescere. Anche questo ci rende umani. Ogni passaggio verso un uomo nuovo è segnato da una cicatrice e ogni cicatrice è un monito, una prova.

Dentro la luce artificiale della caverna-spogliatoio, adesso, in mezzo ad altri respiri forti, comprendo perché la haka dei guerrieri Maori è stata presa dagli All Blacks e non si tratta solo di puro folklore. Lo spogliatoio è l’ultimo passo, l’ultimo passaggio. Solo passo dopo passo – A Upane Ka Upane – in bilico tra la vita e la morte, tra il coraggio e la paura – Ka Mate Ka Ora – si può guadagnare la luce, il Sole, la vittoria – Whiti te Ra -. Il terreno scricchiola dei passi tacchettati. Sono al mio posto.

Proiezioni #1 – Ephraim

Piove che quasi sembra mi piova dentro la testa. Il vento alle persiane sbatte, cercando di raggiungere ogni angolo, frustrato nel tentativo.

Image

Apro gli occhi. Nel mio letto io esco da una casa di pietra a strapiombo sul mare. Tutto attorno ulivi con le chiome scarmigliate in una posa supplichevole dal vento di anni – quante epoche può raccontare un ulivo? – adesso placido e assopito da un sole estivo, che fa chiazze luminose sulla terra altrimenti nascosta dagli alberi. Germoglia l’erba, sono a piedi scalzi e posso sentire il mondo scorrere insieme a me, umido e rigoglioso, l’acetosella mi accompagna come te in mezzo a questa pace. E’ un’estate di ogni anno della mia infanzia, così come di altri periodi della mia vita e posso sentire l’odore adesso inconfondobile della carne sulla brace. Mio nonno, poi anche l’altro, il secondo come se fosse una presenza immanente, dentro e fuori di me.

Image

Lipari si appoggia su un mare adesso quasi piatto, che si può vedere, scuro e profondo di blu, dalla scogliera erosa dai marosi. Non so se questa Lipari sia mai esistita, ma lì dove niente è davvero impossibile, questa è Lipari. Al di là di ogni ragionevole dubbio, posso guardarti attraverso il filtro della luce solare. Il tuo sorriso mi racconta ogni parola. Posso ascoltare la tensione della tua pelle, catturata dalla spensieratezza, infine illuminare il verde intenso dei tuoi occhi e dirmi quanto sia bella tu e quest’isola che ci accomuna. Il vulcano scorre tra i tuoi capelli, ti posso sentire tutt’una con le cose della natura, indivisibile, intensa, come se tutto appartenesse e cospirasse della stessa essenza. Un respiro intenso mi cattura e mi porta il mare e ogni desiderio si condensa in una sensazione. So che ci sei e io sono Ephraim, doppiamente fecondo, finalmente lontano dall’Egitto.

Ephraim. Questo nome vedo scritto. Io sono Ephraim. Sono a casa e niente può spostarmi da qui. Mi risveglio con un trillo. Sono ancora lontano, ma ogni giorno è un passo verso il ritorno.

Image