Esercizio #13 – Partenze

Risveglio impastato senza sveglia, a tappe: 07.17; 09.17; 09:21. Il letto mi ha risputato fuori alla stessa maniera di come mi aveva accolto: stanco, con la schiena rotta. No, non dormo bene. Capita di tanto in tanto e leggo il perché anche nei sogni che faccio.

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Ho raschiato il fondo di alluminio della confezione del caffè. Gli ultimi granelli di macinato finiscono sulla carta da cucina, dimenticati attorno alla forma della caffettiera che, piena, non li ha voluti, il mio ultimo caffè in Svizzera. Adesso che sono alla fine la testa tira strani scherzi: ricordo nitidamente le voci che mi hanno accompagnato in questi mesi, l’accento di r arrotolate come nessun altro fa in tutto l’universo francofono, i posti, i (pochi) odori, qualche esperienza, tutto poi si mischia a creare un enorme melting pot senza capo né coda, dentro il quale si segue una storia senza intreccio, senza inizio o fine. Non mi chiedo più di tirare le somme, so che qualunque metro di giudizio provi ad utilizzare sarà incompleto ed inutile. Ritorno al mio caffè.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

Più di tutto mi sono attaccato al caffè per sentire ancora un po’ l’aria di casa, per non dimenticarla, per resistere alla durezza di temperature mai provate, di deserti silenziosi, dove, alle volte, non sono riuscito a carpire la presenza umana. In buona sostanza me ne vado. In buona sostanza posso dire di non aver capito. Nel caffè, allora, rivedo la mia lunga partenza, questi 10 mesi, come un giro lungo per ritornare a casa, a posti che posso adesso riconoscere con più leggerezza. Prendo il primo sorso con movimenti compassati, odoro, ancora prima di portare alle labbra, l’asprezza a tratti tannica, l’ubriacante mielosità dell’arabica. Più di tutto mi è mancato il mare.

Colombier, Neuchâtel, Svizzera

La prima volta che sono tornato, la mia valigia era piccola, modesta: portavo i vestiti per una settimana, ma dentro di me avevo la pesantezza di molte cose da sciacquare via. Andavo via da un mese di nebbia, intrappolato dentro un enorme nulla, nemmeno il lago poteva darmi quel respiro che qui pian piano si faceva sempre più corto e affannoso. Volevo lavare via la stessa durezza melanconica con cui ero partito. Ho cercato l’odore del mare e, sorpreso, non sono riuscito a trovarlo. Era scomparso dalla mia testa. Al secondo sorso di caffè la mia lingua si irrigidisce al contatto acidulo. Lo apprezzo, lo faccio diventare introspezione. Più di tutto mi sono mancati gli amici.

Ho vestito la maglia della mia squadra, la maglia della mia famiglia acquisita per tre volte quest’anno. Ho preso il mio bagaglio di abbracci e sono ripartito, trattenendo le lacrime dolorose di un distacco che io stesso ho cercato. Allora mi sovviene la storia della rana e dello scorpione e mi dico che, forse, è la mia natura. La mia natura: adesso ricordo che ero partito per trovarla. Tuttavia, partire e fuggire, partire ed esiliarsi non sono la stessa cosa. Al terzo sorso, uguale al secondo e uguale forse a tutti i secondi e terzi sorsi che ho preso da ogni tazzina di caffè, vedo appena il fondo. Più di tutto mi è mancata la famiglia.

La prima sera che ho dormito di nuovo nel mio letto ho dormito come mi sembrava di non aver mai dormito in vita mia. Un sonno lungo, pieno di sogni, consolatore. Lì dove ho la mia famiglia so che ho casa mia e ancora, nonostante il tempo mi abbia fatto crescere la barba e mi abbia accompagnato fuori di casa con l’impellenza di decisioni volte al futuro, riesco ad emozionarmi per un bacio di mia madre, a sentirmi protetto, come da bambino, tra le braccia di mio padre. A pensarci, in quella casa in campagna dove torno e che chiamo “casa”, lì si sono condensate migliaia di esperienze, si è consolidato un éthos. A toccare le mura ruvide posso sentire le mani callose di mio padre, così come la sua passione, e ancora sul lungo e liscio tavolo di legno massiccio rivedo la sua pazienza silenziosa. Da piccolo il suo meditare era per me un inesplicabile mistero, adesso so che al di là della sua mutezza ci sono mille progetti con un futuro ed uno scopo. E adesso, che la disillusione ed il cinismo mi hanno fatto addosso una dura scorza di cicatrici, c’è ancora una favola che resiste al tempo: mio padre è il mio unico eroe, l’unico di cui davvero vorrei riuscire a seguire le orme. Al fondo della tazzina resta qualche granello bruciacchiato, imbevuto di un caffè che sa poco di caffè. Più di tutto mi è mancata una vita.

E lì sul fondo, a poche ore ancora dall’andare a riprendere tutto, dipanando meglio i fili di Lachesi, posso risentire quella voce che mi aspetta, caracollando tra l’impazienza e la calma. Il mio prossimo caffè avrà due tazzine.


Esercizio #5 – Moebius

Inserite nel loro contesto, le cose non hanno né inizio né fine. Semplicemente sono.

La pioggia impalpabile ma continua di una notte senza vento ha appiattito nuovamente gli odori della primavera. Essi stanno assopiti tra le gocce che non evaporano al suolo, sulle foglie verdi di vita, tra i rami gonfi di linfa, e per questo il tribolato ed incessante via vai d’insetti è cessato, aspettando tempi migliori. A terra c’è il segno del travaglio: stremato, spento, vinto dalla sorpresa della pioggia, un bombo si lascia cullare dalle ultime sensazioni, prima che il fango o una scarpa pesante lo portino per sempre all’oblio. Stirato sulla terra nuda del passaggio di troppi uomini da quel breve tratto, è un soldato caduto. La sua causa è antica, la sua corsa folle, affinché tutto si protragga nel suo ordine, affinché la sua breve vita di innumerevoli battiti d’ali non sia inutile. Presto altra pioggia cadrà a lavarlo, affogarlo, ricoprirlo di fango, ridurlo ad irriconscibile nutrimento. No, non è stata inutile la sua caduta stanca.

Tutto attorno stanno i soffioni, spogli adesso, come amanti sfatti, bruciati da una passione vissuta fino in fondo, le teste spennacchiate, intirizzite dalle gocce che non scivolano via, ma si rapprendono agli ultimi acheni rimasti ancora ad attendere il vento buono, la giusta occasione per volare via. Rivedo in questo forse tante storie, forse una, che è tutta comune all’umanità. Rivedo donne al balcone, in attesa dell’uomo giusto, poi alla finestra, in attesa di un uomo, poi sedute ad una poltrona, in attesa di una speranza. La vita è volata altrove, sembrano dire impotenti, quando altri sono andati via, presi dal rabbioso ed imprevidibile vento di primavera, che porta il ruggito sordo delle valli di Svizzera, il fruscio tra gli aghi dei pini secolari, il suono crepitante e vuoto delle foglie dei faggi e delle quercie, costrette a terra dal tempo che passa, infine porta pollini, porta nuove, infinite possibiltà, ma entro un canovaccio ben preciso. Eccolo, il nastro di Moebius. Non importa dove o quando cadrà il seme, ma che sarà caduto, prima o poi, e che fiorisca nell’insieme, perché uno è importante per infinito, perché infiniti uno sono un infinito. Mi lascio agire dal vento come un soffione, il mio sguardo si muove su luoghi conosciuti, sorvolandoli, indugiando là dove il vento si riposa, riprendendo veloce la marcia verso n’importe où con lo slancio di una caduta infinita nel vuoto. Sono nello stesso punto, ma sono ovunque si snodi una vita. Lascio cadere l’occhio sui miei vicini in attesa dello stesso autobus: anche loro sono parte di questa storia e di tutte le storie. La faccia impaurita dell’ordinato vietnamita, protetto dal suo zaino nero come la tartaruga dal suo guscio, mi riporta all’orecchio la mia stessa domanda: come sono arrivato qui?

Riprendo allora il filo di imprevedibili deviazioni, di strade maestre e vie traverse, per scoprire come il vento mi abbia agito ed infine come abbia corso soltanto lungo il reticolo senza fine del grande trucco di Moebius. Partire. Muoversi per non spostarsi mai, sportarsi per non sostare, sostare per non essere mai davvero partiti, infine fiorire. Sorrido, sono una cosa del mondo. Ti aspetto a casa.